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LE VOCI DELLA POESIA

In memoria di Leonilde

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Parlare della morte ci è quanto mai estraneo. Evitiamo con cautela di affrontare quello che sicuramente accadrà. E non ci mancano le parole per ‘aggirarla’: sonno eterno, ultimo respiro, trapasso, fine, scomparsa. Invece Emily Dickinson (1830-1886), vissuta in un periodo in cui morire era un’evenienza quanto mai comune, ne fece uno dei suoi temi preferiti. Ne scandagliò ogni angolo nascosto, nel tentativo di comprendere come un mondo di anime tanto preziose e uniche, capaci di ideare meraviglie potesse subire l’offesa della morte. Riuscì persino a dipingere in parole piccole scene commoventi nella loro semplicità:

#J150

Lei morì - è così che lei morì.

E quando il respiro non fu più

Prese i suoi abiti semplici 

E si avviò verso il sole -

La sua piccola figura al cancello

Gli Angeli devono aver visto,

Perché non l’ho più trovata

Dove stanno i mortali.

#J150

She died - this was the way she died.

And when her breath was done

Took up her simple wardrobe

And started for the sun -

Her little figure at the gate

The Angels must have spied,

Since I could never find her

Upon the mortal side.

La scena degli Angeli che accolgono al cancello del paradiso la piccola figura, partita coi pochi abiti posseduti, è dolcemente rassicurante, quasi commovente. Come lo è la visione della donna diretta verso il sole. Cosa sarà questo sole che illumina l’aldilà? Qualunque cosa sia, per il tempo di otto versi, la morte non pare tanto spaventosa. 

Ci sono altri versi, fra i tanti in cui la fine è protagonista, dove Dickinson cerca di penetrare il mistero della Morte, che è anche quello della Vita:

#J1100

L’ultima Notte che Lei visse

Fu una Notte come Tante Altre

Eccetto per il Morire—questo per Noi

Rese la Natura diversa

 

Ci accorgemmo dei più minuscoli dettagli—

Cose mai osservate prima

Come fossero—evidenziate

Da questa grande luce sulle nostre Menti.

 

Mentre uscivamo ed entravamo

Tra l’ultima Sua Stanza

E le Stanze per Quelli che

Domani avrebbero vissuto, un senso di Colpa

 

Che Altri sarebbero esistiti

Mentre Lei era proprio alla fine

Un senso di Gelosia si presentò verso di Lei

Ormai quasi parte dell’infinito—

 

Aspettammo mentre Lei era al trapasso—

Fu un tempo ristretto—

Le Nostre Anime troppo scosse per parlare

E infine l’annuncio arrivò.

 

Lei parlò, e subito dimenticò—

Poi leggera come un Giunco

Piegato dall’Acqua, lottò per poco–

Si arrese, e fu morta—

 

E Noi—Noi le sistemammo i Capelli—

Raddrizzammo la Testa—

E infine ci fu tutto il tempo terribile

Di riordinare ciò in cui crediamo— 

 

#J1100

The last Night that She lived

It was a Common Night

Except the Dying—this to Us

Made Nature different

 

We noticed smallest things—

Things overlooked before

By this great light upon our Minds

Italicized—as 'twere.

 

As We went out and in

Between Her final Room

And Rooms where Those to be alive

Tomorrow were, a Blame

 

That Others could exist

While She must finish quite

A Jealousy for Her arose

So nearly infinite—

 

We waited while She passed—

It was a narrow time—

Too jostled were Our Souls to speak

At length the notice came.

 

She mentioned, and forgot—

Then lightly as a Reed

Bent to the Water, struggled scarce—

Consented, and was dead—

 

And We—We placed the Hair—

And drew the Head erect—

And then an awful leisure was

Belief to regulate—

I gesti quotidiani, gli oggetti insignificanti, l’agire consueto riflettono una luce insolita alla presenza della Morte. Ci si accorge di inezie cui mai si era data importanza. Sono diversi, ora, un movimento delle mani, le cose che accompagnano le ore del giorno e della notte, le parole solite, i gesti del vivere comune. Sono passati attraverso la presenza della morte. C’è un prima e c’è un dopo. Gli oggetti, i modi abituali della vita, le stanze della gioia e dell’amore sopravviveranno.  Una notte come tante diviene particolare per l’arrivo della morte. L’ultima notte di vita è resa unica perché vede l’arrivo del morire. Non ancora la morte vera e propria. Ma il momento in cui siamo testimoni dell’ultimo sospiro. Delle ultime parole farfugliate e subito dimenticate, mentre la coscienza se ne va. Forse in un momento non dissimile dal dormire. Forse il passaggio è avvenuto come in un fluire liquido tra il sonno  e la veglia, tra coscienza e assenza. 

Però ora, per chi rimane, arriva la colpa. La colpa di essere sopravvissuti. Di sapere che abiteremo ancora le stanze che Lei non potrà più riempire. Ma arriva anche la gelosia. Siamo gelosi di Lei che ora ‘sa’. Di Lei che ora è ‘infinito’. Ha la risposta alla domanda che passiamo la vita ad evitare. Cosa sarà di noi. La lotta è minima. Lei si arrende come un giunco piegato dalle acque. Non oppone resistenza, quasi salutasse l’acqua venuta a prenderla con sollievo. Resta, a noi, solo il compito di preparare il rito finale. Aggiustare i capelli. Sistemare la posizione della testa. Il rito, il conforto del rito è per chi resta, non per chi lascia. E’ per chi resta circondare la morte coi gesti rassicuranti del rito. Chi lascia è ormai ‘oltre’. E, come ogni morte, anche questa riordina, rivede, aggiusta la nostra fede. Qualunque fede. Ogni morte può ridefinire ciò in cui crediamo. Ci sarà tempo, tempo abbondante e terribile (ma di un terribile particolare visto che la parola awful, terribile, contiene la parola awe, meraviglia) per ‘risistemare’ quello in cui crediamo. 

Ma in tutto questo la costante è l’amore. E’ l’amore che ci fa seguire un rito definito, un rito che possa dare l’illusione di controllare la morte. Di sapere ciò che, forse, vivremo dopo. Ma è anche la memoria di ciò che il corpo, passato attraverso l'estremo mutamento, è stato per noi. Ciò che ancora è per noi, e sempre sarà. E’ la memoria dell’Amore il conforto più grande. Avvolgente come acqua dolce che lava ogni scoria, lasciando solo l’Amore cristallino come riflessi sull’acqua.

 

E anche l'amore che Leonilde ha donato avvolgerà a lungo chi quell'amore ha sperimentato.