Continuo a raccontarvi delle case sparse sul fianco della Pietra che guarda verso Castelnovo, ricordatevi però che io vado molto indietro coi miei ricordi, circa un ottantina di anni fa, perciò voi “giovani” che siete nati e abitate in quel posto, non restateci male se non vi nominerò.
Arriviamo pure ai “Pavoni”, quando non esisteva nessuna strada asfaltata, anzi vi dirò che quella che c’è adesso proprio non c’era per niente, ma solo uno stretto sentiero.
Allora i sentieri univano queste case sparse e questo, passava molto in alto come vi ho già spiegato, questi passaggi, erano posti sempre fra i confini delle proprietà, perciò era posto dove finiva la terra degli Agostini di Bagnolo di Sopra che erano padroni di buona parte della Pietra.
Torniamo al sentiero che a un certo punto inforcava il bosco, passando sotto “Sass Puntlìn” Sasso a Punta, questo grande sasso veniva chiamato così per la lunga punta che si ergeva verso il cielo, poi sbucava sopra la casa di Secondo sulla via che portava al Santuario, difatti era stato fatto per questo scopo andare a messa alla Pietra.
Poi un altro sentiero scendeva molto ripido, passando vicino alla siepe di Franschin dalla Pieve, mezzadro dell’arciprete, poi due gradini interrati e seguiva la siepe dei “Giarèla” mezzadri degli Agostini e sbucava vicino a casa nostra. Come vedete solo sentieri.
Allora non esistevano strade, ma mulattiere, difatti quella che univa Castelnovo ai Pavoni, saliva dall’Albiaccio verso Ca’ di Patino e appena dopo il vecchio acquedotto girava a destra e quella era la vera strada che portava ai Pavoni, ma poi proseguiva, univa altre case, di queste vi racconterò un’altra volta e arrivava fin sul pianoro della Pietra, vi dirò che questa mulattiera esiste ancora.
Adesso arriviamo ai Pavoni, questo nome forse l’aveva preso proprio da questi animali che andavano ad abbeverarsi alla grande fontana che usciva spontanea dalla roccia con un grosso getto che io ricordo personalmente, acqua limpida, leggera, dissetante, dove le donne che abitavano in quelle case andavano con un pezzo di sapone a lavare i panni usando dei piccoli mastelli di legno.
Adesso di tutto questo resta solo il mio ricordo. E’ stato tutto intubato incanalato, non so dirvi chi lo abbia fatto e perché, certamente non sono più i Pavoni di una volta, con quel rubinetto sul muro di cinta della strada, io ho provato a bere, ma non è più l’acqua sorgiva di una volta.
Torniamo a raccontare di queste due case che c’erano allora, due casette basse e lunghe, almeno io le vedevo così, una sopra e l’altra sotto, in quest’ultima vi abitavano Peppo Sacaggi, con la moglie di nome Celide e i loro cinque figli. Il capo di casa naturalmente lavorava in paese come manovale e lì restava la Celide, una donna con un bel viso, bionda coi capelli lisci che le scappavano in continuazione dalla crocchia che si faceva sulla nuca io la ricordo sempre con una bimba in braccio e l’altra che aveva il mio stesso nome Elda, attaccata alla gonna, come del resto anch’io, in quel periodo stavo sempre vicina a mia madre.
Spesso la vedevi in piedi sul pozzetto della fontana che urlava il nome dei due figli maschi per richiamarli a casa e senza mezzi termini urlava:
“Adriano, Franco, se no tornate subito a casa quando arrivate vi taglio il collo “cul Pudai”
Naturalmente solo parole, dal momento che amava i suoi figli più di se stessa e la gente quando la sentiva sorrideva e diceva:
“Senti la Celide cosa sta dicendo”.
I figli poi erano bravissimi, certo che qualche volta si fermavano a chiacchierare con gli altri ragazzini della Pietra, sapete com’è a una certa età il tempo vola. Aveva anche una figlia già grande, Mariuccia, fine delicata con portamento signorile, questa assomigliava molto al padre.
Poi si sono trasferiti in pianura e io li ho visti sempre meno, ora però voglio raccontarvi degli abitanti della casa di sopra a quella della Celide.
Lì abitavano i Dalla Porta, con questo cognome, “Dalla” mi viene da pensare che in un tempo molto remoto avessero avuto a che fare col famoso “Dalla” famoso “padrone” della Pietra.
Lasciamo perdere le fantasie e torniamo al capo di questa famiglia Francesco, chiamato col diminutivo Franceschin, per via della sua altezza, sposato con la Celsa e padre di una decina di figli, non ricordo esattamente il numero anche se li ho conosciuti tutti il conto sempre non mi torna.
Franceschino era impiegato al “dazio” a lui l’onere di portare a “mano” nei vari paesi del comune il foglio con le tasse da pagare e penso anche a incassare, perciò chilometri e chilometri di strada da coprire a piedi, col borsone di pelle uguale a quella del postino, penzoloni sul basso schiena, dal momento che non era molto alto.
Mi sovviene un episodio, una sera di mercato, che rientrava passando da questa strada era in compagnia di Pèppo da ca’ di Bugino.
Forse avevano bevuto un bicchiere in più, da Farinèli “Cines” che era l’ultima osteria, alla fine del paese, arrivati qua, hanno visto la Rosina di Betalli (una zitella) appoggiata al davanzale della finestra che sorrideva e decidevano di passare da lassù per salutarla “lei poi col suo risolino li prendeva in giro”.
Erano tutti e due malfermi sulle gambe e Pèppo diceva:
“State in su, va a finire che finiamo in quel di Minghin”.
Che poi era mio padre, al che, Franceschin che per il lavoro che faceva, conosceva per nome i padroni dei vari terreni, gli rispondeva:
“No vi sbagliate, è quello della Maria!”
L’altro però non cedeva e la discussione andava avanti, così alla fine caddero tutti e due dentro a una grande siepe di razze e rovi che divideva la nostra proprietà da quella di sopra.
Naturalmente mentre la Rosina si sbellicava dal ridere, mia madre accorse in loro aiuto, li tirò fuori tutti graffiati e li rimise sulla strada maestra.
La famiglia di Franceschin era molto devota e in quella casa ogni sera si recitava il rosario, quando finalmente arrivò a casa era ora di recitarlo e lui come ogni sera disse:
“A quale santo lo dedichiamo stasera?”
La Celsa rispose con decisione:
“Al Santo protettore dei vigneti, che li faccia seccare tutti”.
Il marito anche se brillo capì l’antifona e cominciò il rosario.
Anche a loro poi come in quasi tutte le famiglie successe una grave disgrazia, un figlio diciottenne, cadde dalla Pietra scivolando mentre tentava di prendere un nido di falchi, che poi avrebbe venduto ai signorotti di Castelnovo che li ammaestravano e usavano per la caccia.
Un grande dolore per questi genitori, ma poi Dio aveva preparato per loro una grande soddisfazione, una figlia che si chiamava Gina, entrò nelle suore di Santa Croce, col nome di Suor Maria Celeste e divenne Madre Superiora in quel di Roma. Ricordo che le poche volte che tornava a casa, veniva sempre a salutare mia madre. Questo lo faceva anche un suo fratello, Giuseppe, veniva spesso a trovare mia madre e ogni volta ricordava il gnocco fritto che lei ogni giorno, portava anche per loro quando andava a pascolare le mucche o la capra e raccontava che lui era sempre nel bosco in anticipo ad aspettarla. Giuseppe poi e questo mi sento in dovere di raccontarlo, è stato l’unico partigiano, non solo della Pietra, ma anche di tutto il paese di Castelnovo, che è venuto subito a trovare mia madre, quando durante la guerra mia sorella è stata uccisa e piangendo le diceva:
“Maria credete, io non ne sapevo niente, l’ho saputo dopo”.
E mia madre “sapeva” che lui diceva la verità.
Come vedete, sotto la Pietra si viveva così, anche se le case erano distanti l’una dall’altra, si trovava sempre il modo di incontrarsi, la casa della Zita era un punto molto importante, lì c’erano i fratelli, Bruno, Gigi e l’Irene ragazzi sempre pronti al dialogo, lì si poteva parlare di tutto, ridere e scherzare.
Per finire vi dirò che gli altri figli di Franceschin e della Celsa, gran lavoratori si sono fatti tutti una casa lassù ai Pavoni, che con l’arrivo dei Reverberi, ora è diventato un borgo.
(Elda Zannini)