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Elda racconta: i ricordi di Pietro

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Elda racconta: i ricordi di Pietro

Come proprio paese di solito viene identificato il nostro luogo di nascita, in pieno rispetto delle leggi e delle normative che regolano l’anagrafe.

Io penso che il tuo paese sia quello dove ti senti felice e stai bene con te stesso.

Quel paese per me è Vetto d’Enza, in dialetto soltanto “Vet”, paese che ho sempre considerato nel mio cuore, come mio paese nativo.

Mi sento Vettese d’origine, grazie ai miei nonni, a mia madre che erano di Vetto come anche il mio fratello maggiore anche lui come me nato là.

Io dagli ultimi anni 50 alla fine degli anni 60 ho trascorso la mia fanciullezza e l’adolescenza coi miei nonni che possedevano un appezzamento di terra fra il Monte Faillo e Vetto.

L’ha ho trascorso la mia infanzia e porto stampate nel mio cuore, in modo indelebile, tutte le ricorrenze e le festività di quei posti.

A quel piccolo paese da me tanto adorato, al fiume Enza, ai miei nonni, agli amici e a tutti i Vettesi devo tanti ricordi, dico “grazie” a tutti.

Ricordi duri, si io li chiamo così “duri” non brutti, perché quando si è affezionati alle proprie radici, si ama anche la vita con quello che ti offre, no la parola “brutti” non esiste nel mio dizionario.

Ricordi tristi sì, più volte ho pianto, un pianto liberatorio, un pianto di sfogo, però sempre un pianto dolce, mai arrabbiato o controverso.

Ho patito la fame e la miseria, ma mai mi sono sentito inferiore ad altri o infelice, sappiate che in quegli anni in tanti eravamo nelle stesse condizioni.

Tra i miei ricordi ce ne sono anche belli e pieni di emozioni.

Per esempio, le persone che anche se distanti da te, ti cercavano con il volto per salutarti. Oggi vedo che tante persone anche se conosciute, per evitare di dirti qualcosa, portano il cellulare all’orecchio facendo finta di telefonare.

Poi chi non ricorda la domenica di Pasqua, quando nel sagrato della chiesa dopo la messa si faceva “lo scusìn” con le uova colorate, con le erbe della nostra campagna.

Ricordo il venditore di cocomeri, questo, ogni volta che mi vedeva me ne regalava una fettina. In quegli anni una fetta di cocomero costava 50 lire e io di soldi non ne avevo mai e a quella mancanza quel brav’uomo (di cui purtroppo non ricordo più il nome) senza farmi sentire umiliato rimediava lui. Per quel gesto nobile gliene sarò sempre grato.

La signora Caterina, che ogni tanto, la mattina presto, mi vedeva raggiungere il paese, mi preparava una tazza di latte caldo e una bella fetta di “brasadela” ciambella e per il cammino di ritorno, mi preparava un pacchettino con dentro un quadretto di marmellata “Zuegg” un quadratino di cioccolato amaro e tre o quattro prugne Carlette.

Io mi ero molto affezionato a quella signora e grazie alla sua autorizzazione la chiamavo zia.

Quando più grandicelli facevamo una partita a pallone (Vettesi contro villeggianti) non giocavamo per vincere a tutti i costi o per essere più forti degli altri. Allora giocavamo per divertirci, ridere, scherzare, socializzare, unica preoccupazione non rovinare le scarpe dalla festa, eravamo così preoccupati che giocavamo scalzi per non rovinarle.

Più tardi quando un mio caro amico andava a rallegrare le feste e le piazze col suono della sua fisarmonica, mi chiedeva di accompagnarlo e di stargli vicino, oppure, sempre lui, mi chiedeva di accompagnarlo ad incontrare la sua morosina all’uscita dal lavoro.

Così io durante il ritorno spingevo il motorino a piedi e lui mi seguiva mano nella mano a fianco della sua ragazzina. Allora ragazzi miei, negli anni sessanta si “morosava” così.

Con i ricordi mi fermo qui, ma voglio ancora scrivere di una forte emozione.

Ogni volta che in corriera facevo il viaggio da Reggio Emilia a Vetto, quando dal finestrino vedevo la curva stradale, chiamata curva della “Rocca”, scendeva su di me una felicità, una tranquillità mi sentivo di ottimo umore, in una parola sola, mi sentivo un altro ragazzo, “un ragasèt”.

Pietro