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Alluvione in Romagna, l’intervento dell’economista Lupatelli

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Pubblichiamo un commento dell’economista Giampiero Lupatelli sui recenti fatti alluvionali in Romagna.

Una amica carissima, romagnola, ha pubblicato in queste ore sui social il messaggio che più mi ha colpito su questa ulteriore alluvione che ha investito la Romagna mettendo a dura prova non solo la tenuta delle infrastrutture fisiche e dei sistemi sociali ai quali ordinariamente affidiamo le nostre istanze di sicurezza ma anche, ancora più nel profondo, la tenuta delle nostre strutture psichiche, la capacità di “elaborare il lutto” che il disastro ambientale ci produce e di dominare la angoscia che inevitabilmente deriva dalla nostra difficoltà a comprendere e a ragionevolmente abitare un mondo che periodicamente ci mette di fronte alla fragilità delle nostre esistenze prese nel gorgo delle forze -incommensurabilmente maggiori delle nostre- che la cieca energia del mondo e in grado di mettere in campo.

Lasciamo per un attimo da parte la questione di quanto queste forze siano state scatenate (anche) dalla nostra mefistofelica hybris, dalla pretesa di poterle sempre e comunque dominare.

È una questione rilevante ma non è la questione.

La mia amica titolava il suo messaggio con la richiesta di essere “radicali” cioè di non accontentarsi di nessuna spiegazione o tantomeno giustificazione di comodo per misurare invece la portata del cambiamento necessario, da parte di tutti. Nell’apprezzare pubblicamente il suo intento e nel ringraziarla per le considerazioni coraggiose e però sobrie e responsabili con le quali veniva declinando il programma della sua radicalità, mi sono chiesto in che posizione mettermi di fronte alla enormità di quel che si è manifestato e soprattutto di quel che ci attende.

La risposta, come spesso mi accade, la ho cercata innanzitutto nella rielaborazione di quel che ho conosciuto, sperimentato, dibattuto, fatto, nel corso di una vita professionale ormai lunga, ripensandola alla luce delle consapevolezze più recenti, delle ultime letture, delle nuove voci ascoltate.

Il consumo del suolo

La mia consapevolezza professionale conosce la criticità del consumo del suolo da quasi mezzo secolo, avendola assorbita dalle inattuali e profetiche attenzioni di un Maestro come Osvaldo Piacentini che si era preoccupato di misurare il “consumo di suolo” di tutta la pianura della Emilia Romagna, nella sua proiezione secolare come nelle accelerazioni (allora) più recenti, già sul finire degli anni ‘70 del secolo scorso.

E che del rapporto ineludibile tra impermeabilizzazione dei suoli, velocità di scorrimento e livelli delle acque e rischi di esondazione aveva già mezzo secolo fa non solo una comprensione profonda ma anche l’animo di tematizzarla come condizione cruciale nella pratica della pianificazione territoriale.

Mi verrebbe anche da ricordare che, nella sua meditata capacità di accogliere la lezione “politecnica” di Carlo Cattaneo e di studiare a fondo i processi secolari di costruzione “artificiale” della pianura emiliana albergava anche una consapevolezza altrettanto profonda sulla dimensione ciclopica dello sforzo necessario, della sua necessità ma anche della sua difficoltà. Non c’era, allora, la consapevolezza neppure intuita della novità del cambiamento climatico imposto dal riscaldamento globale e della responsabilità umana nel generarlo.

Nel lessico di Osvaldo, in questo figura isolata e singolare nel panorama dei pianificatori territoriali in tutt’altre faccende affaccendati, questo processo di grave alterazione degli equilibri ambientali non si chiamava “consumo di suolo” per prendere invece il nome, forse un po’ più oscuro e meno comunicativo di “Erosione antropica”.

A ripensarci ora, questa dizione arcaica, mi sembra insolitamente appropriata. “Erosione”, una attività che segnala disgregazione e degenerazione, e non “Consumo” una delle attività ordinarie e necessarie della esistenza. Un termine fortemente connotato in negativo, nella straordinarietà di una azione che può essere interrotta e revocata, contro un termine neutrale che descrive l’ordinarietà del consumo dei viventi.

Poi l’aggettivo “antropica” a significare una responsabilità soggettiva invece l’oggettività astratta del bersaglio verso cui l’azione si dirige.

Sarebbe poi servito al mio amico Paolo Pileri la forzatura (?) della metafora sulla “intelligenza del suolo” per ridare a questo soggettività e dunque dignità.

Se richiamo l’importanza profetica di quella consapevolezza antica non è (solo) per dichiarare il mio disincanto nei confronti dell’entusiasmo dei neofiti che pensa di avere la risposta (facile) ad un processo sociale complesso che solo da poco ha messo nel mirino. È piuttosto per riflettere sulla esigenza di spostare il punto di vista con il quale fare fronte alla eccezionalità degli eventi.

Frequento da decenni geologi, idraulici, climatologi (alcuni ne ho frequentati di straordinarie qualità intellettuali ed umssssssssane) per presumere di poter cogliere qualcosa della loro rappresentazione dei fenomeni fisici e ambientali con i quali si confrontano e di selezionare dalla loro conoscenza e con la loro interpretazione il punto (i punti) sui quali si deve fermare l’attenzione e il ragionamento di fronte a fenomeni di così ingente portata e di non minore complessità.

Le dimensioni del fenomeno e la loro frequenza

Il punto che ha colpito più in profondità la mia intelligenza (anche nella sua dimensione emotiva e non solo nella sua rappresentazione cognitiva) riguarda le dimensioni del fenomeno e la loro frequenza.

Ho capito che in un giorno sono piovuti ora in Romagna 300 millimetri di pioggia, un terzo circa della pioggia statisticamente attesa nel corso di un anno intero. Se non ricordo male nel maggio dell’anno scorso in un giorno di millimetri ne erano piovuti cinquecento, la metà della dote annua. Fra i due fenomeni sono trascorsi poco più di quindici mesi.

Il tempo di ritorno per questi eventi estremi era stato stimato nell’ordine di un secolo. So di probabilità e statistica abbastanza per capire che un evento di frequenza centenaria accaduto lo scorso anno non esclude che questo, con una probabilità molto bassa, possa ripetersi l’anno successivo. E, tuttavia, rimandare alla casualità degli eventi la unica responsabilità dell’avversarsi di una probabilità infinitesima, non mi sembra saggio. Più saggio mettere in discussione la capacità dei nostri modelli statistici basati sulla osservazione del passato di avere una qualche capacità di prevedere il nostro futuro. Certo siamo la società della incertezza e del rischio.

Per inveterata abitudine del mestiere (e forse anche per presunzione) mi viene naturale collocarmi nella posizione di chi crede di avere qualche potere di agire (e l’assai più ampia responsabilità che ne consegue) e dunque la domanda che sempre mi viene naturale di fronte a ciò che scuote le mie convinzioni è “Che fare”? “Che cosa dobbiamo fare?” titolava in realtà Tolstoj che per primo ha affidato questo interrogativo ad un libro stampato.

“Il faut s’adapter”, bisogna adattarsi

Che fare dunque di fronte alle forze letteralmente sovrumane che il cambiamento climatico scatena contro di noi?

Traggo la risposta che più mi persuade da un libro bellissimo che leggo in queste ore (con qualche difficoltà [quella che è stata non la mia lingua madre ma comunque la lingua di mia madre, mi è sempre un po’ ostica]. Libro che un caro amico, anche lui guarda caso romagnolo, mi ha suggerito poco tempo addietro ma che non è stato ancora (?) tradotto.

La risposta [il titolo del libro] è “Il faut s’adapter”, bisogna adattarsi! Come sempre accade per ogni specie di fronte al cambiamento delle condizioni ambientali alle quali la sopravvivenza collettiva della specie è legata da una modesta e fragilissima speranza.

Barbara Stiegler ne parla in un senso apparentemente lontano da quello che ci parrebbe necessario attribuire ai processi di adattamento al cambiamento climatico.

Il suo libro riporta in vita un antico dibattito maturato nella cultura americana della prima metà del XX secolo tra le posizioni del progmatismo e quelle del neo liberismo (che non è una brutta parola, ci insegna Barbara, e che ha più a che fare con le culture “interventiste” degli ingegneri sociali del new deal che con quelle del “cinismo economico” della scuola di Chicago).

Il “dibattito Lippmann/Dewey” come è stato categorizzato nella riconsiderazione critica operata negli anni ‘70 da Michael Focault in Francia con un nuovo spolvero che poca traccia ha lasciato alle nostre latitudini, registra lo scontro di due diversi approcci che si vogliono misurare con il problema (che è largamente vicino al nostro) del disallineamento tra l’evoluzione accelerata dell’ambiente sociale entro cui si colloca l’azione umana e il ritardo rispetto a questa della nostra capacità “biologica” di farvi fronte con i tempi evolutivi della nostra natura inesorabilmente “animale”

A farla semplice (e semplice non è) si può dire così:

Robert Lippman, il neoliberista “buono”, colui che propugno l’ideale di quella Good Society che sarebbe poi diventata la Big Society di Lyndon Johnson; che ispirò il 12 punti del nobile (e infruttuoso) sforzo del Presidente Wilson di costruire una pace giusta dopo il primo conflitto mondiale (limitandosi a produrre la farsa della Società delle Nazioni); che ispirò concretamente l’impegno militante di una generazione intellettuale a sostenere il sogno di un New Deal del Presidente Franklin Delano Roosvelt; Lippman, dunque, sosteneva la necessità di una guida tecnocratica del processo di adattamento della “umanità in ritardo” rispetto alle accelerazioni che l’avvento del fordismo cominciava a rendere evidenti.

John Dewey, erede della tradizione democratica Jeffersoniana incardinata nelle piccole comunità rurali della Virginia e interprete della più straordinaria lezione pedagogica del pragmatismo americana, sosteneva l’esigenza che “l’adattamento” seguisse il percorso inclusivo, pur faticoso e incerto, della partecipazione democratica della intera popolazione alla elaborazione di questo processo.

L’adattamento al cambiamento climatico

Direi che il dilemma si ripropone ancora: l’adattamento al cambiamento climatico (se pure ci riuscirà) sarà affidato alla capacità persuasiva e alla responsabilità manageriale delle élite tecnocratiche (quelle ambientaliste comprese) a la Lippmann, o richiederà invece, nel solco della lezione deweyana per avere successo una mobilitazione inclusiva delle consapevolezze, dei comportamenti e delle decisioni, di un esteso, maggioritario, campo di attori sociali che interpreterà l’adattamento essenzialmente come un grande processo educativo.

A guardare i comportamenti attuali entrambe le strade paiono lontano dal poter essere battute con efficacia.

Le tecnocrazie ambientaliste del new Green Deal europeo si sono avventurate lungo il percorso per loro familiare della azione regolativa registrando successi limitati ma dovendo patire la sensibilità di élite politiche assai poco lungimiranti alla diffusa contrarietà che la prospettiva di una riduzione dei gradi di libertà o la paura di una possibile riduzione dei livelli di benessere individuale per la via di una azione normativa rivolta alla sostenibilità ha incontrato in larga parte del corpo elettorale europeo.

I movimenti si sono espressi con la radicalità un po’ superficiale (forse solo emotiva!) dei Friday for future, esaurendo troppo presto la “spinta propulsiva” del proprio ingenuo coraggio ma più spesso si sono manifestati in opposta direzione nelle proteste di un populismo ottuso poco interessato ad esplorare criticità e rischi a medio (?) termine di uno scenario climatico e ambientale inatteso e molto più propensi a scaricare nevroticamente le proprie paure, rivolgendole come rancore nei confronti di un qualche presunto colpevole, facile da individuare nelle élite di un “potere della conoscenza” ormai disarmato.

Per riproporre la questione indirizzandola su binari che la possano avvicinare a una soluzione, la prima esigenza che avverto è quella di un grande bagno di umiltà che ci faccia fare i conti, per una volta, con la dimensione enorme della sfida che la esigenza di adattamento ci impone.

Io penso - spero di sbagliarmi naturalmente - che nessuno di noi abbia una idea ragionevolmente attendibile delle dimensioni dell’investimento necessario alla società europea per ridurre il livello di rischio cui ci espone il cambiamento climatico attraverso la riconfigurazione di infrastrutture, insediamenti residenziali e produttivi, sistemi di produzione e consuetudini di consumo. Sospetto che si tratti non di frazioni (più o meno cospicue) del nostro PIL quanto piuttosto di suoi multipli, al punto da rendere paradossalmente ragionevole la rimozione del fenomeno e la sua riduzione a una rassicurante lite di cortile nella quale agitiamo i nostri principi ma accuratamente evitiamo di assumerci le responsabilità necessarie. Impossibilia nemo tenetur, in fondo.

Così interpreto i post che più frequentemente addebitano gli esiti del disastro ambientale a comportamenti specifici, singole Issue, facili da affrontare “ce ne fosse la volontà politica” Che il nemico si chiami assenza di manutenzione dei canali o consumo di suolo, poco importa, forse.

Quel che conta è la regressione infantile che ci porta a cercare in un nemico estraneo e lontano da noi le responsabilità che non ci sentiamo in grado di affrontare, innanzitutto per la loro dismisura.

Per questo, per la onestà intellettuale di cercare in noi prima che altrove gli ostacoli da rimuovere nella difficile ricerca della soluzione, ho molto apprezzato l’invito della mia amica romagnola ad esercitare una convinta radicalità che ci chiede innanzitutto di rinunciare a consolatorie certezze per esplorare con coraggio una navigazione verso i lidi inesplorati di un adattamento che si prospetta gigantesco.

Rispetto al quale il tema non è solo “cosa” si deve fare ma anche “quanto” se ne deve fare e, cosa ancora più importante “come” lo si potrà fare.

Agendo su quali meccanismi del nostro processo cognitivo e della nostra capacità di assumere decisioni efficaci? E su questo ultimo punto il dibattito Lippmann/Dewey torna mostrare tutta la sua preganza!

 

1 COMMENT

  1. Una volta conclusa la lettura di questo articolato mi ritrovo ad un bivio interpretativo, nel senso che non riesco a comprendere se “bisogna adattarsi”, con spirito per così dire fatalista, di fronte ad una “erosione antropica” che avrebbe provocato una irreversibile alterazione degli equilibri ambientali (e alla capacità persuasiva delle élite tecnocratiche spetterebbe il renderci convinti di quanto sopra), o se invece, e all’opposto, dalle stesse élite tecnocratiche dobbiamo aspettarci indicazioni realistiche per poter rimediare agli eventuali errori commessi negli anni, quanto a scelte e programmazioni urbanistiche, o di altro genere (ivi compresa la cosiddetta pianificazione territoriale).

    P.B. 22.09.2024

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