Fu Langston Hughes, il grande poeta del Rinascimento di Harlem, a scoprire Lucille Clifton (1936-2010):
won’t you celebrate with me, (1993, probabilmente composta negli anni ‘60)
non celebri con me?
won't you celebrate with me
non celebri con me?
what i have shaped into
questa specie di vita
a kind of life? i had no model.
cui ho dato forma? non avevo un modello.
born in babylon
nata a babilonia
both nonwhite and woman
sia nonbianca che donna
what did i see to be except myself?
cos’altro potevo vedere a parte me stessa per diventarlo?
i made it up
me la sono inventata
here on this bridge between
qui su questo ponte tra
starshine and clay,
luce del sole e argilla,
my one hand holding tight
la mia mano che tiene stretta
my other hand; come celebrate
la mia altra mano; vieni a festeggiare
with me that everyday
con me che ogni giorno
something has tried to kill me
qualcosa ha cercato di uccidermi
and has failed.
e ha fallito.
La domanda del titolo e del primo verso non suona particolarmente assertiva, come se la poeta stessa fosse incerta dell’opportunità di festeggiare. Ma invece questo ‘sonetto’ atipico, con nessuna maiuscola come a sottolineare la piccolezza di ciò che viene descritto, può certo essere la celebrazione di una realizzazione personale, della capacità di formare un proprio sé ben distinto anche quando le premesse sono tutt’altro che buone. E le premesse non erano buone perché la poeta non aveva ‘un modello’, nessuno cui ispirarsi, nessuno che le fosse vicino a stimolarla. Inoltre era ‘nonbianca’, il che è peggio che dire ‘nera’, perché definisce negando, identifica attraverso un’assenza, quella del colore della classe dominante, e, oltretutto, è pure una donna. Poteva ispirarsi solo a sé stessa, ed è esattamente ciò che ha fatto, scovando dentro di sé forza e coraggio, tenendosi le mani, perché nessun altro gliele teneva. Si è dovuta ‘inventare’, diventare creatrice di se stessa.
Eppure non è proprio vero, o almeno così pare dai versi stessi, che la poeta non abbia nessun ‘modello’: in fondo sappiamo tutti che una poesia di quattordici versi rimanda a quella che è forse la forma più conosciuta e tradizionale di testo poetico, il sonetto (se pure ha senso chiamare sonetto una poesia solo perché ha quattordici versi). E ad un altro sonetto, molto tradizionale in questo caso, il sonetto di John Keats Sedendosi a rileggere Re Lear, si ispirano le parole ‘tra luce del sole e argilla’ perché richiamano quelle di Keats ‘tra dannazione ed argilla appassionata’, a sottolineare lo scontro tra fisico e spirituale che qui diventa un ponte tra luminosità e crudezza dell’argilla con cui siamo creati. Inoltre quel ‘celebrate’ della domanda iniziale ricorda Song of Myself (Canzone di Me Stesso) di Walt Whitman (1819-1892), il poeta dell’americanità più tradizionale, che certo non aveva remore a celebrare se stesso e ciò che sentiva di rappresentare.
La spiegazione di questa apparente incongruenza può arrivare dal quarto verso dove, con l’allitterazione della lettera b a sottolinearne il significato, la poeta ci dice di essere nata a Babilonia, la città dove, secondo la Bibbia, gli Israeliti furono deportati dopo la conquista di Gerusalemme nel 586 avanti Cristo. La gente di Clifton, i nonbianchi, furono strappati alla loro patria, come gli Ebrei, per farne schiavi e la poeta ‘è nata’ a Babilonia, quindi non ha assolutamente nessuna conoscenza di prima mano della sua terra di origine, della sua cultura, delle sue tradizioni. Si è ritrovata, donna e nonbianca, ovvero doppiamente sottomessa, in una terra che non è la sua, apprendendo ‘modelli’ che non sarebbero i suoi. Così i versi lunghi sia del sonetto tradizionale che della poesia di Whitman, caratterizzata, quest’ultima, anche da un linguaggio spesso aulico e trionfale, diventano i versi brevi di un linguaggio colloquiale a rappresentare, pure tramite l’assenza di maiuscole, il poco in cui questa poeta può sperare: solo ‘a kind of life’, ‘una specie di vita’, un restringimento, una copia di seconda mano della tradizione dei ‘bianchi’.
Ma il coraggio vero va oltre l’eredità culturale, e così, nel quartultimo verso, l’incerta domanda iniziale cambia tono facendosi sicura e ispiratrice, facendosi un’esortazione a celebrare la propria sopravvivenza, il coraggio che ha permesso di annientare i quotidiani tentativi di uccidere, distruggere la poeta, tentativi che sono tutti falliti. Clifton si è certo meritata i festeggiamenti!
Possiamo sicuramente immaginare che questa forza nasca anche dalla capacità di saper sorridere quando si vorrebbe piangere. Ce lo dice pure Alda Merini (1931-2009):
Sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride.
Sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
Il tuo sorriso sarà
luce per il tuo cammino
faro per naviganti sperduti.
Il tuo sorriso sarà
un bacio di mamma,
un battito d’ali,
un raggio di sole per tutti.
La visione, nei primi sei versi, della donna che deve sorridere comunque e in ogni situazione è amara: non solo la donna subisce, ma deve farlo col sorriso. Lo stesso sorriso che, nei sette versi che seguono, diverrà luce e guida per lei, conforto, vita e amore per chi le sta accanto.
Nonostante parte della scienza dica che anche un sorriso finto genera emozioni positive perché il movimento dei muscoli deputati a sorridere ‘inganna’ il cervello che così produrrà comunque gli ormoni della felicità, è evidente che il sorriso di Merini e quello di Clifton sono diversi.
Il sorriso della poeta americana nasce dalla consapevolezza di aver lottato, sofferto, pianto e di aver vinto. E, a dispetto della scienza, niente può eguagliare il sorriso di chi ha combattuto per i propri diritti e ha vinto, di chi è riuscita a creare sé stessa nonostante in tanti non volessero la nascita di questa ‘io’, di chi è riuscita a piegare le tradizioni adattandole alla propria identità, senza compromessi. Certo non un sorriso di arrendevole sottomissione.
Bellissima spiegazione finale del sorriso, grazie e bravissima