Cuore di Donna
Non importa che The Heart of a Woman sia stata scritta da una poeta Afro-Americana perché questi versi sono universali:
The Heart of a Woman, 1918
Il Cuore di una Donna
The heart of a woman goes forth with the dawn,
Il cuore di una donna si palesa con l’alba,
As a lone bird, soft winging, so restlessly on,
Come un uccello solitario, portato da ali delicate, sempre in avanti,
Afar o’er life’s turrets and vales does it roam
Dall’alto si muove sopra le torri e le valli della vita
In the wake of those echoes the heart calls home.
Sulle tracce di quegli eco che il cuore chiama casa.
The heart of a woman falls back with the night,
Il cuore di una donna si ritira con la notte,
And enters some alien cage in its plight,
E nel destino avverso entra una gabbia sconosciuta,
And tries to forget it has dreamed of the stars
E prova a dimenticare di aver sognato le stelle
While it breaks, breaks, breaks on the sheltering bars.
Mentre si spezza, spezza, spezza contro le sbarre che lo proteggono.
Il Rinascimento di Harlem diede vita ad un fiorire di artisti vasto e diversificato, nutrito dall’orgoglio di essere neri. Tuttavia questi versi di Georgia Douglas Johnson (1880–1966), che di quel Rinascimento faceva parte, sono prima di tutto quelli di una donna. Due sono le strofe della poesia, a dividere il giorno dalla notte. Di giorno il cuore della donna si risveglia all’alba, pronto a non sprecare nulla delle ore che verranno. Ha le ali soffici di un uccellino solitario che però lo portano con determinazione e insistenza, perché una donna sa di non potersi fermare, neanche se si sente sola, neanche se si sente fragile. Dall’alto lo sguardo attraversa gli alti e i bassi della vita, le torri alte verso il cielo e le vallate tracciate in basso, ma sempre nella scia dei richiami che vengono da casa, il centro di quel cuore, quello che tradizionalmente dovrebbe essere il centro della vita di una donna. La notte, però, il cuore deve ritirarsi, tornare nella gabbia preparata da altri, ed è qui che il cuore di donna cerca di dimenticare i sogni del giorno, i sogni che lo illudevano di essere completamente libero e di poter arrivare alle stelle. E dentro la gabbia il cuore sbatte contro le sbarre che sono state alzate per ‘proteggere’ quel cuore, perché una donna deve essere ‘protetta’, ‘osservata’, ‘controllata’, e in questo tentativo di fuga il cuore si spezza. Douglas Johnson scriveva un secolo fa, eppure ci sono ancora tante donne dietro a sbarre che pretendono di proteggerle e invece sono prigioni. Prigioni che di notte, quando si è sole e si riflette, e i sogni e le delusioni della giornata ci guardano con tutta la forza delle speranze irrealizzate, paiono davvero insuperabili. Di prigioni metaforiche sapeva bene anche Sibilla Aleramo (1876-1960): lo imparò quando, a quindici anni, fu obbligata a rinchiudersi nella gabbia di un matrimonio riparatore con l’uomo che l’aveva violentata. Pensare che si potesse riuscire a non considerare i sentimenti di una figlia violata nell’intimo, al suo disgusto nel dover subire ciò che ora era divenuto per lei un dovere, fa riflettere sulle tante gabbie in cui erano rinchiusi i genitori, la famiglia, la società in generale. E fa anche riflettere sul fatto di quanto facile sia non accorgersi della presenza di queste gabbie, non accorgersi di essere imprigionati.
Son tanto brava, 1921
Son tanto brava lungo il giorno.
Comprendo, accetto, non piango.
Quasi imparo ad aver orgoglio
quasi fossi un uomo.
Ma, al primo brivido di viola in cielo
ogni diurno sostegno dispare.
Tu mi sospiri lontano:
Sera, sera dolce e mia!
Sembrami d'aver fra le dita la
stanchezza di tutta la terra.
Non son più che sguardo,
sguardo sperduto, e vene.
Come per Douglas Johnson la giornata, nello spirito della donna, è chiaramente divisa in giorno e notte. E’ proprio brava, questa donna; fa quello che tutte le bambine devono fare: essere brave, non lamentarsi, accettare. Comprendere il proprio ruolo e ad esso conformarsi, comprenderlo talmente bene da riuscire ad essere orgogliose di se stesse, di quell’orgoglio che solo gli uomini hanno il diritto, la forza, la prepotenza?, l’obbligo?, di provare. Ma il giungere della sera, dolce dell’intimità e del viola del tramonto, risveglia sospiri di parole represse, nascoste, celate agli altri e a noi stesse. Allora la stanchezza infinita di essere in una gabbia, una gabbia con tanti, diversi tipi di sbarre, ma sempre, comunque, gabbia soffoca dell’aria stantia di una prigione, che è la prigione di tante altre donne in tanti altri luoghi della terra. Allora alla donna non resta che lo sguardo smarrito su un mondo incomprensibile e che non comprende, non le resta che cercare di dimenticare di aver sognato le stelle, anche se né Douglas Johnson né Aleramo rinunciarono a inseguirle quelle stelle, così come resta il sangue a tenerla in vita. La madre di Sibilla Aleramo aveva pagato un alto prezzo, anche se purtroppo alquanto comune, per la sua riaffermazione come donna, per aver anche solo cercato di resistere ad un marito autoritario. Aveva pagato prima con la depressione, quella malattia del cervello, subita anche dalla figlia, che invade la mente e fiacca il corpo, per poi finire in quello che era il luogo deputato per tante donne ‘pazze’, ‘isteriche’, ‘nevrotiche’: il manicomio. Siamo figlie dei milioni di donne che prima di noi hanno fatto le brave, hanno volato in altro senza curarsi degli avvallamenti che inghiottono, hanno sognato le stelle, si sono spezzate sbattendo contro le gabbie ove erano rinchiuse, hanno sentito avvicinarsi l’orgoglio di essere donna, hanno sentito la stanchezza del mondo, come se avessero più solo occhi per piangere e sangue per sopravvivere. Dobbiamo fare in modo che non siano dimenticate e, soprattutto, fare di tutto perché loro siano orgogliose di noi.
Ornella Gigli