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ORIGINI ANTICHISSIME

Le tre chiese della parrocchia di Cola, e una dedicazione particolare

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Tre chiese nel territorio della parrocchia

Trattiamone brevemente, con un titolo un po' sontuoso, copiato da quel grande storico della Chiesa reggiana che fu il canonico Giovanni Saccani. Siamo infatti abituati a parlare della chiesa di Cola, ma, anticamente, nel territorio di Cola di chiese ne avevamo ben tre: dei Santi Martiri Quirico e Giulitta, di San Michele Arcangelo, di San Martino. L'argomento non è per nulla leggero e lo affronto con una certa apprensione, grato se obiezioni, critiche e nuovi apporti riusciranno ad approfondire e a consolidare la ricerca. Senza questa speranza starei zitto. Abbiamo già incontrato il primo documento dal quale prendiamo le mosse: quello pubblicato anastaticamente da mons. Milani nella sua storia di Cola, a pag. 42 e che, datato con un calcolo tutto particolare al 1164 o poco prima, descrive una situazione "parrocchiale" riferibile al termine dell'età matildica. Il documento ci dice in modo molto chiaro che in quegli anni esistono in Cola una chiesa "del castello" ("de castro", corrispondente a quella dei Santi Quirico e Giulitta, e una chiesa di "Giandezzo" ("de Glandezo"), località ancor oggi nota col nome dialettale di "Giandés". La terza chiesa, poi, si trovava in Groppo, come vedremo da altri documenti, di là dal fiume o “ultrarivum", come troviamo in diversi documenti per indicare i territori pertinenti alla giurisdizione di Cola posti oltre il rio, l’Atticola (“ad Colam”), nome rimasto poi al rio stesso.

 La chiesa dei Santi Quirico e Giulitta, ovvero "del castello"

Partiamo dalla Chiesa dei Santi Martiri Quirico e Giulitta. Il loro culto ebbe larga diffusione nelle Chiese orientali dei primi secoli. Un culto particolare avevano nella cappella di San Michele in Costantinopoli. È un sicuro indizio di antichità anche della nostra parrocchia, come lo è di una chiesa in Garfagnana della quale lo storico Lorenzo Angelini scrive: «Il titolare San Quirico, il cui culto è sicuramente di provenienza orientale, ci conduce all'epoca anteriore all'invasione longobarda, con tutte le conseguenze storiche che se ne possono dedurre sulla diffusione e l'organizzazione del Cristianesimo nella zona». In Diocesi di Reggio solo due altre chiese hanno questa dedicazione (San Romano di Baiso e Villa Minozzo). Magari torneremo con un articoletto a parte su questi due Santi. Dire che questa chiesa era quella "del castello" può significare: a) era la chiesa della giurisdizione civile di Cola; b) era la chiesa collocata dentro a un castello. La seconda ipotesi (che può includere la prima) è molto interessante e, al confronto di altri dati, molto attendibile. Il luogo in cui essa sorge ha, ancor oggi, tutte le caratteristiche del luogo fortificato; è circondato da tre lati da alti scoscendimenti (attutiti in tempi vicini a noi); dal quarto lato, a sud, si apre su un prato. La tipologia è tipica di tanti altri castelli appenninici nei quali abbiamo una parte alta (la rocca, in vetta) fortificata e una parte bassa (il borgo) adibita ad abitazione di diverse famiglie. Possiamo dire che questo è il castello di Brigenzone, quello in cui abita il famoso Ferrario che nel 1175 se ne va a Costantinopoli (una città, stranamente per la nostra storia, centrale nel culto dei Santi Quirico e Giulitta). Egli, per di più, si dichiara di nazionalità "romana" e il culto di questi Santi è tipico della cristianizzazione romana e romano-bizantina. Qui abita anche quel Leonardo da Brigenzone che il 10 aprile 1198 cede terre, fortezze e castelli da lui possedute nel territorio reggiano al podestà di Reggio, Baylardo.

Il Monte "di" Brigenzone

Finora la storiografia ha immaginato il Castello di Brigenzone sul monte che sovrasta il cimitero di Cola. Ma lassù ci poteva essere lo spazio abitativo richiesto dalla famiglia (moglie, figlio, servi, abitazioni e case rusticali) di Ferrario e dei suoi antenati, quali emergono dalle sue carte testamentarie? Impossibile sostenerlo. Forse c'era una semplice torre di osservazione o una rocca nella quale cercare un estremo rifugio nell'imminenza di un pericolo. Il dialetto di Cola ci dà una ulteriore conferma che "Brigenzone", non è il monte, ma il castello da cui il monte dipende. In dialetto, infatti, non si diceva "Monte Brigenzone", ma "Monte di Brigenzone" (Mùnt ad Berghinsùn). E nelle prime carte topografiche ancora del secolo XIX è indicato come “Monte Ara”. Se ammettiamo che il castello si trovasse dov'è ora la chiesa, immediatamente sotto troveremmo la "corte", cioè la sede amministrativa del territorio. Avremmo così anche la spiegazione del nome "Corte" che contraddistingue il borgo sottostante alla chiesa. La tipologia di un insediamento simile non era per nulla rara nel medioevo. Ne abbiamo un altro esempio nella località carpinetana di Mandra, con castello, chiesa e borgo in uguale correlazione, come emerge dallo studio recente di Arnaldo Tincani. Potremmo dire che quella dei "Signori di Groppo e Brigenzone", di stirpe romana, sia una famiglia che sopravvive dalla lontana invasione longobarda, probabili vassalli del vescovo di Reggio. Il fatto si accorderebbe con la prevalente toponomastica latina di Cola (Casella, Villa, Brolo, Predella, Valle, Vallo, Caveriola, ecc.). Per avere la prima notizia di una rocca sicuramente collocata sul Monte di Brigenzone dobbiamo attendere il 1314, allorché i Reggiani preparano un esercito per distruggere questo castello (una torre, una cisterna, poco più) nel quale Giacomo dalla Palude, la cui famiglia si era sostituita a quella di Ferrario nel dominio di Crovara e Brigenzone, teneva prigioniero il reggiano Bertolino Ruini. E ricordiamo pure l’importanza strategica di questa giurisdizione Cola-Groppo con la quale dalla Palude potevano taglieggiare la strada che, salendo lungo l’Atticola, aveva un importante punto di riferimento nella chiesa di San Michele di Monteròssolo, poi saliva a Monteduro (territorio in età matildica degli arimanni di Rivitico, e a San Michele di Talada. Questo il castello distrutto dai reggiani nell'estate del 1314, con tanta rabbia perché si trovarono a dover combattere più contro l'astuzia che contro la potenza militare di Giacomo. Ricorderemo l'episodio delle armi rubate da Giacomo al comandante reggiano Ciaccio dei Maltagliati. Sui ruderi di questo castello, mai più ricostruito, è nata la leggenda del tesoro nascosto e dei vari "spiriti".

La chiesa di Monteròssolo (o di Giandezzo)

La chiesa di Giandezzo è ricordata ancora nelle tradizioni orali di Cola. I vecchi ricordano che dentro vi era un "coccodrillo" imbalsamato, oppure che fu distrutta da un enorme "serpente". Sono tutti elementi che ci rimandano al culto di San Michele, vincitore del "drago" infernale, cioè di Satana1. Di questa chiesa o, meglio, dell’ultima sua versione, rimane ancora il portale trasferito ai primi del secolo scorso in un edificio del borgo di Corte. Ben riconoscibile perché, nonostante i contrassegni principali siano stati scalpellati, vi campeggiano ancora segni di angeli. Giandezzo è un po' più a valle dell'attuale Monteróssolo (Munt-Róssl), ma ancora ben vicino (poche centinaia di metri) per poter affermare che la chiesa di Giandezzo sia la stessa di Monteróssolo, una chiesa della quale abbiamo notizie già nel secolo XII, dedicata allo stesso santo, proprietà della chiesa di Reggio che l'aveva data al monastero cittadino di San Prospero. Gli storici reggiani, ignari di tale località che non compariva sule carte allora disponibili, si sono sbizzarriti a cercare di capire dove fosse questa antica chiesa collocata nella curia di Bismantova. Il Saccani la suppponeva "seriamente" presso Carnola, ai piedi della Pietra. Monteróssolo di Cola ha tutte le carte in regola per dirsi luogo di questa chiesa: è in fronte alla Pietra; la dedicazione a San Michele coincide con quella che la tradizione - correttamente interpretata - attribuisce alla chiesa scomparsa di Cola, sita appunto in Giandezzo, come ricorda anche il Milani. Nel 1132 ci fu una famosa controversia tra l'Abate di questo monastero e l'arciprete di Campiòla (Castelnovo ne' Monti) per i diritti su questa chiesa e sui suoi possedimenti terrieri. Il Papa nominò tre commissari perché ascoltassero e giudicassero: Giovanni, abate di Marola; Federico, arciprete di Carpi e Rodolfo, prevosto di Carpineti. Essi sentenziarono che la chiesa era proprietà del monastero, ma che il suo rettore dovesse far parte dei "canonici" della Pieve e quindi dipendere dall'arciprete. Secondo una tradizione ancora viva nel secolo scorso, questa chiesa svolgeva le funzioni parrocchiali per gli abitanti di Regnola. Nel 1313 ha una rendita di sei lire, ponenedosi come terza nella graduatoria dei redditi fra le 18 chiese dipendenti dal monastero. Su questa chiesa ci sono numerose notizie fino al secolo XVI. Poi inizia la decadenza. Gli anziani nati alla fine dell’Ottocento ricordavano di avere visto, in Giandezzo, il cumulo delle sue rovine.

La Chiesa di San Martino in Groppo.

La dedicazione della Chiesa di Giandezzo (o di Monteróssolo) a San Michele, offre nuove e inedite informazioni sul territorio antico di Cola. Di fronte ad essa, infatti, a Groppo, sorgeva un'altra chiesa dedicata a San Martino. La contrapposizione delle due chiese così dedicate costituisce un'altra tipologia caratteristica dell'età longobarda che ci rimanda al famoso gastaldato di Bismantova (secc. VI-X) e, con ogni probabilità al problema della via romano-longobarda da Parma a Lucca. «San Michele - scrive ancora l'Angelini - sarebbe il santo dei Longobardi ariani, così come San Martino sarebbe il titolare dei Longobardi cattolici. Casi di vicinanza "a confine" dei due titolari sono presenti ... proprio in località di valore strategico». Poco distante, poi, troviamo Regnola (Argnóla), probabile trasformazione del termine "Arimmaniòla", piccolo insediamento di arimanni, cioé "uomini" longobardi liberi e armati: in questa zona, infatti, a nord di Cervarezza, un documento del 1106 indica terreni di proprietà di una a noi ignota arimannìa "de Ruvitico". La sua presenza ci spiega perché, nel 1098, Matilde di Canossa abbia scelto Garfagnolo come località in cui svolgere il “giudizio di Dio per risolvere la controversia su Nasseta vertente tra i monaci reggiani di San Prospero e gli uomini delle Vaglie. Se pensiamo, per continuare con l'Angelini, che «il culto di Sant'Andrea - al quale è dedicato Garfagnolo, lì vicino - fu caratteristico dei missionari orientali che mossero alla conversione dei Longobardi», la tipologia longobardo-bizantina di parte del territorio parrocchiale di Cola ritorna per intero, in modo veramente sorprendente. Abbiamo documenti scritti che riguardano Groppo negli anni: - 1112: Osterenda, figlia di Manfredo da Groppo, dona terre alla pieve di Campiola; - 1175: Ferrario da Brigenzone possiede terre contemporaneamente a Groppo e a Giandezzo; - 1199: il longobardo Aldegerio dona XII denari alla chiesa di Groppo. Il primo documento noto che accenna esplicitamente alla dedicazione di questa "chiesa" a San Martino risale all'aprile 1184. È difficile dire dove si trovasse la chiesa più antica. Il terreno di Groppo è notevolmente instabile e certamente col passare dei secoli, la chiesa avrà subìto diverse ricostruzioni. D'una di esse abbiamo notizia nella visita pastorale del 1752, dove leggiamo che «l'oratorio di San Martino di Groppo, di proprietà della villa, è stato recentemente ricostruito ed è abbastanza ben conservato». Quella proprietà attribuita alla villa, cioè all'intero paese, ci dice che l'oratorio si ricollega direttamente alla chiesa antica. A partire dal 1791, in obbedienza a una direttiva del vescovo, nell'oratorio si tiene l'insegnamento della dottrina sia per i ragazzi che per gli adulti, pur senza eccessiva regolarità. Anche a Groppo, infatti, si sono sacerdoti che vivono in famiglia come, nella seconda metà del '700, un certo don Francesco Ruffini. Probabilmente è questo del '700 l'oratorio che compare ancora in una bella fotografia di don Milani, scattata forse prima della guerra, con tanta gente - più di cento, e tanta gioventù - che esce dalla Messa. L'oratorio attuale, come noto, è stato ricostruito da don Vasco sul finire degli anni millenovecento cinquanta.