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Quelli che probabilmente sono i versi più famosi della poeta americana Mary Oliver (1935-2019), Wild Geese, Oche Selvatiche, sottolineano come la natura sia insegnamento di saggezza e accettazione: 

Wild Geese, (1986) 

 

You do not have to be good.

You do not have to walk on your knees

for a hundred miles through the desert repenting.

You only have to let the soft animal of your body

love what it loves.

Tell me about despair, yours, and I will tell you mine.

Meanwhile the world goes on.

Meanwhile the sun and the clear pebbles of the rain

are moving across the landscapes,

over the prairies and the deep trees,

the mountains and the rivers.

Meanwhile the wild geese, high in the clean blue air,

are heading home again.

Whoever you are, no matter how lonely,

the world offers itself to your imagination,

calls to you like the wild geese, harsh and exciting -

over and over announcing your place

in the family of things.

Oche selvatiche

 

Non devi essere buono.

Non devi camminare sulle ginocchia

facendo penitenza per centinaia di miglia attraverso il deserto.

Devi solo permettere al morbido animale del tuo corpo

di amare ciò che ama.

Parlami della disperazione, la tua, e ti dirò della mia.

Intanto il mondo va avanti.

Intanto il sole e i chiari ciottoli della pioggia

si muovono attraverso i paesaggi,

sulle praterie e gli alberi profondi,

le montagne e i fiumi.

Intanto le oche selvatiche, alte nell’aria chiara e azzurra,

si dirigono nuovamente verso casa.

Chiunque tu sia, non importa quanto solo,

il mondo si offre alla tua immaginazione,

ti chiama come le oche selvatiche, duro ed eccitante -

annunciando ancora ed ancora il tuo posto

nella famiglia delle cose.

Mary Oliver

Quante volte ci siamo sentiti dire che dobbiamo essere bravi, specialmente da piccoli? Invece Oliver afferma il contrario: i primi versi sono un incitamento a rigettare l’idea che dobbiamo pentirci per essere salvati, che il pentimento è necessario perché siamo imperfetti; ma non ce n’è bisogno, dice la poeta, non dobbiamo attraversare il deserto in ginocchio come gli antichi eremiti. Ciò che dobbiamo davvero fare è accettare ed amare “the soft animal of our body”, “il morbido animale del nostro corpo”. Il nostro corpo mortale è come quello di un tenero animale, delicato nella sua fragilità, ma non per questo corrotto. E dobbiamo consentire a questo nostro corpo di amare ciò che ama, senza farci tormentare da sentimenti di inadeguatezza e di colpa. 

Siamo insieme in questo mondo, a parlarci, l’un l’altro, della nostra disperazione, così che questa diventa meno travolgente perché nel frattempo il mondo va avanti, col sole o le gocce di pioggia pesanti come ciottoli, nelle praterie e nelle profondità dei boschi, sui monti come nei fiumi: la nostra vita è un cerchio di continuità col mondo naturale, continuità rafforzata dalla ripetizione della parola “meanwhile”, “nel frattempo”. Intanto, infine,  anche le oche selvatiche del titolo si presentano, tornando a casa, nel loro ricorrente rito della migrazione,  dandoci la sensazione che anche noi siamo a casa, che questo mondo è qui per accoglierci e sostenerci: anche se siamo soli, la natura si offre alla nostra immaginazione, fa nascere in noi sentimenti, ci chiama come chiama le oche, perché anche noi apparteniamo, al pari di questi animali,  al ciclo della vita. 

E anche Umberto Saba (1883-1957), un poeta così lontano per tempo, geografia e cultura da Mary Oliver, riconosce nel belato di una capra il suo stesso pianto, le sue stesse parole di dolore:

 

La capra, (1909-1910)

 

Ho parlato a una capra

Era sola sul prato, era legata.

Sazia d’erba, bagnata

alla pioggia, belava.

 

Quell’uguale belato era fraterno

al mio dolore. Ed io risposi, prima

per celia, poi perché il dolore è eterno,

ha una voce e non varia.

Questa voce sentiva

gemere in una capra solitaria.

 

In una capra dal viso semita

sentiva querelarsi ogni altro male,

ogni altra vita.

 

La pioggia bagna la capra come fosse lacrime, lacrime perché prigioniera, anche se sazia. Nel suo belato il poeta riconosce la voce della propria pena e la fraternità con l’animale, seppure, all’inizio, il poeta imiti il belare per divertimento. Il gemito di quella capra zuppa di

Umberto Saba

pioggia, la sua solitudine, il suo volto che ricorda, coi tratti allungati e la piccola barba, le peculiarità dei visi ebrei, in un presentimento terribile dell’enorme dolore che verrà a questa gente, in tutto questo c’è la pena di ogni persona, in ogni tempo. 

Le oche e la capra condividono con noi umani il mondo, anche se le sensibilità dei due poeti sono diverse: se Saba ripercorre la via tradizionale dell'interpretare gli animali come riflesso di noi stessi, Oliver riconosce invece al mondo ed agli esseri viventi che con noi questo mondo condividono un’alterità rispettosa che rifiuta un mero rispecchiarsi dell’umano. Tuttavia, sia che si tratti di un riecheggiare o della constatazione di un non-umano che comunque non possiamo far altro che decifrare ed esprimere coi nostri codici,  non è difficile sentire l’affinità, la comunione di una sofferenza che è anche nostra; più difficile è accettarla, quella sofferenza, ovvero accettare il nostro posto “nella famiglia delle cose”. 

Nonostante ciò, questa vita dura, difficile, ma anche eccitante ed inebriante, dice che facciamo parte di una famiglia di cose terrene, che questo mondo è il nostro posto e non dobbiamo avere paura perché, come le oche alte nel cielo azzurro, troveremo sempre la via verso casa, una casa terrena ed eterna al tempo stesso.