In una poesia non datata, la numero 1684 nella cronologia di Thomas Johnson, Emily Dickinson definisce l’eternità come un’amica che la segue nelle passeggiate, che abita con lei, un’amica insistente, ostinata come nessun'altra nella volontà di non abbandonarla mai. Così, mentre tutti coloro che si affidano alla religione affermano di sapere dove sia l’eternità, lei la sente sempre vicina, una presenza costante con cui condivide la vita.
Il paradosso della poeta americana è che la meraviglia dell’esistenza terrena è talmente grande da mettere in dubbio la grandezza dell’altra eternità, quella promessa dalla fede:
# J1695
There is a solitude of space
A solitude of sea
A solitude of death, but these
Society shall be
Compared with that profounder site
That polar privacy
A soul admitted to itself—
Finite infinity.
C’è una solitudine dello spazio
Una solitudine del mare
Una solitudine di morte, ma queste
Sono un luogo affollato
Se paragonate a quel posto profondissimo
Quella solitudine antinomica
Un’anima al cospetto di se stessa—
Infinità finita.
Emily Dickinson era un’esperta di solitudine: lentamente, da quando aveva poco più di vent’anni a quando ne compì trenta, la poeta divenne una reclusa in quella che lei stessa definiva “la casa di mio padre”. Piano piano cominciò ad uscire sempre meno, a ricevere sempre meno visitatori, e a parlare con quelli ricevuti dalla porta socchiusa di un’altra stanza. Questo isolamento è stato poi analizzato, una volta che la donna considerata la più eccentrica di Amherst in Massachusetts era divenuta la più grande poeta americana, dando adito alle diagnosi più disparate, conseguenti a malattie o sindromi assai difficili da provare. Ma la solitudine di Emily Dickinson non è una condizione di timore generalizzato, non accettazione di se stessa, cinico ritiro dall'immobilità del mondo, paura della vita o chiusura verso gli altri. Al contrario, con l'isolamento Dickinson ribadisce la sua unicità, rivendica un'autonomia ed un'identità che le donne del tempo non avevano e che lei ottiene, paradossalmente, scegliendo e delimitando i suoi spazi, negandone al contempo l'accesso a chiunque non le fosse gradito. Giungerà a vestirsi quasi completamente di bianco, a riaffermare visivamente, con un abito quasi monastico che per molte altre donne aveva significato esclusione, la religione di cui si era fatta consapevole sacerdotessa, quella della poesia. La nipote Martha Bianchi, figlia dell'adorato fratello Austin, la descriverá mentre chiude la sua camera e, mimando il gesto di una chiave che serra la porta, dice: “Ecco la libertà, Matty!”. L'amore per il giudice Otis Lord rese più felici gli ultimi anni di entrambi, ma non la convinse ad accettare la sua proposta di matrimonio. Forse per non perdere la libertà ormai raggiunta nella sua stanza dell’elegante casa “di suo padre”? Quella di Emily Dickinson non è una fuga, bensì una sfida ad una società patriarcale che raggiunge il proprio scopo nel paradosso di un'apparente negazione di se stessi. In sostanza, Dickinson ottiene ciò che Virginia Woolf chiederà con forza quasi cinquant’anni dopo: “Una stanza tutta per sé “. Ma se per Woolf questa stanza è il luogo di partenza, il sine qua non di una libertà da ricercare al di fuori della stanza stessa, per Dickinson la stessa libertà è ottenuta all'interno.
In una poesia composta intorno al 1862 (#632), dirà che il cervello è più ampio del cielo, è più profondo del mare, perché cielo e mare possono essere contenuti, compresi dal cervello stesso. Ed è appunto la grande capacità della mente umana di concepire mondi, universi infiniti a rendere la solitudine la via per la libertà. Le solitudini di terra e mare, e persino di quella della morte, sono nulla paragonate alla solitudine di un'anima al cospetto di se stessa: l'aggettivo polar non indica distese di neve gelata, di ghiaccio arido, ma si rifà all'altro significato della parola, ovvero opposto, contrario, antitetico.
È questa una solitudine paradossale perché un'anima con se stessa non è mai sola, è l'antitesi di ciò che comunemente si intende per solitudine perché quando siamo sole con il nostro spirito il potere della mente, la forza creativa della poesia, o, per usare una parola piuttosto abusata, l'immaginazione aprono infinità finite. Sono finite queste visioni partorite da un corpo, un cervello mortali, ma al contempo così infinite da contenere cielo e mare.
Non la pensava diversamente Giacomo Leopardi (1798-1837):
L’Infinito, 1819
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Il confine fisico delle pareti di una stanza si trasforma in quello della siepe che nega allo sguardo di proseguire oltre, di posare gli occhi sulla fine dell’orizzonte; ma è proprio questo limite, questo finito che porta la mente al di là, all’infinito. In tal modo la barriera diventa una soglia, non chiudendo, non “escludendo”, ma scoprendo “interminati spazi”, silenzi non più umani e una quiete tanto profonda da divenire anch’essa infinita. L’approdo a questo sentire di eternità è così potente da suscitare timore e persino paura, la paura di aver superato un limite umano per affacciarsi a ciò che fine non ha, che è totalmente ignoto. Il suono del vento riporta alla finitezza dell’umano, che è in perenne confronto con ciò che invece è eterno, e ricorda il passato, le “morte stagioni”, ma anche il presente con la sua voce di vita mortale.
Nel naufragare tra le voci del finito ed il silenzio dell’infinito, il poeta evoca quella che Dickinson chiama “finite infinity”: il paradosso di essere mortali pur avendo percezione dell’immortalità. Il pensiero di Leopardi annegato nell’immensità di un panorama che non è più solo terreno è come la “polar privacy” della poeta americana, ovvero una dolce, struggente realizzazione di essere parte dell’immortalità.
Le parole della poesia sono come il colle, come la siepe, come un mare, come il vento: voci che non delimitano, che non chiudono, bensì fungono da soglia verso la “profondissima quiete”, la “polar privacy” dell’eterno.