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Un’unica guerra

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Wilfred Owen

Le date che rinchiudono la vita di Wilfred Owen (1893–1918) fanno subito comprendere che il destino decretò per lui la morte nella Prima Guerra Mondiale: morì in battaglia all'età di 25 anni, appena una settimana prima dell’Armistizio. Quasi tutte le sue poesie, tragiche testimonianze di un soldato arruolatosi volontario, furono scritte in poco più di un anno, dall’agosto del 1917 al settembre del 1918, a indicazione di quanto il poeta inglese sentisse il bisogno di dedicare i suoi versi proprio alla guerra:

Anthem for Doomed Youth

Inno per una Gioventù Condannata

 

What passing-bells for these who die as cattle?

Quali campane a morto per questi che muoiono come bestiame?

      — Only the monstrous anger of the guns.

      — Solo l’ira mostruosa dei fucili.

      Only the stuttering rifles' rapid rattle

      Solo il rapido sferragliare di carabine balbettanti

Can patter out their hasty orisons.

Recitano le loro frettolose preghiere.

No mockeries now for them; no prayers nor bells; 

Nessuna parodia ora per loro; né preghiere né campane;

      Nor any voice of mourning save the choirs,—

      E nessuna voce di cordoglio se non i cori, —

The shrill, demented choirs of wailing shells;

I cori stridenti, demenziali di proiettili lamentosi;

      And bugles calling for them from sad shires.

      E trombe a richiamarli da tristi contee.

 

What candles may be held to speed them all?

Che candele tenere mentre se ne vanno così in fretta?

      Not in the hands of boys, but in their eyes

      Non nelle mani di ragazzi, ma nei loro occhi

Shall shine the holy glimmers of goodbyes.

Brilleranno i barlumi sacri degli arrivederci.

      The pallor of girls' brows shall be their pall;

       Le pallide fronti di ragazze saranno il loro drappo funebre;

Their flowers the tenderness of patient minds,

I loro fiori la tenerezza di menti pazienti,

And each slow dusk a drawing-down of blinds.

E ogni lento crepuscolo uno scendere di tende.

 

Come quasi sempre succede con la poesia, una vera traduzione non è possibile. Owen rende con incredibile maestria i suoni della guerra sfruttando le consonanti: le parole ci investono con una mitragliatrice di p, k, t, r a ferirci, di s e f a sfiorarci come una lama, di m, n e l a piangere, impossibili da riportare in traduzione.

Guerra di trincea, Grande Guerra

I versi vanno letti a voce alta per apprezzare questi suoni che si inseguono e si intrecciano creando il ritmo, rafforzando con allitterazioni e assonanze la struttura del sonetto, una struttura di cui non sentiamo la rigidità grazie all’abilità del poeta nell’intrecciare i suoni e le immagini tanto da costruire un andamento fluido e continuo. Owen distingue bene tra ottava e sestina: la prima risponde alla domanda iniziale con le immagini delle armi, la loro ira, il loro sferragliare, il loro balbettio, il chiacchiericcio di macchine quasi umane. L’inno evocativo di coraggio nazionalistico del titolo, il canto per questa gioventù condannata a morte come bestiame al macello, i cori funebri, le campane e le preghiere sono solo quelle degli strumenti di morte figli della guerra.

Anche la sestina inizia con una domanda, ma questa  è più intima e dalle armi si sposta all’anima dei morenti, alla fiammella della loro vita fragile come quella di una candela, e di chi lamenta la loro perdita. I giovani soldati muoiono con un ultimo bagliore negli occhi, un saluto rapido e crudele alla vita e a chi si amava. I loro fiori saranno nella tenerezza struggente di chi li piange, sorretto dalla pazienza necessaria al superamento del dolore, mentre l’ultima luce dei loro sguardi si rifletterà nel pallore delle donne che li lamenteranno. 

Questa gioventù condannata a morte, una morte rapida e senza dignità perché riduce gli uomini a bestie,  rappresenta tutti i caduti in guerre insensate, che hanno sperimentato, come Owen, l’assurdità del conflitto dopo l’entusiasmo iniziale. Il vero poeta, diceva Owen, deve essere sincero e onesto, deve dire la verità, deve avvertire piuttosto che consolare. E riguardo alla guerra, il vero poeta deve descriverne la “pity”, ovvero la pietas, la compassione che viene dal comprendere la pena altrui, piuttosto che parlare di onore, gloria, potenza, parole vuote in un ambiente di sofferenza estrema come le trincee della Grande Guerra.

Trincee inondate nella Prima Guerra Mondiale

E così l’anthem del titolo, l’inno patriottico, diventa un inno di partecipazione e comprensione per una gioventù mandata a morire, una protesta contro una società che non ha a cuore i suoi figli, che non capisce lo spreco di vita e talento del campo di battaglia. Non ci sono cerimonie per questi soldati massacrati, né preghiere o campane a morto, né il suono di trombe militari perché le cerimonie pubbliche non potranno mai cancellare la pena dei loro occhi nel momento della fine, una fine arrivata nel pieno del frutto della vita. Il vero drappo funebre calerà nelle palpebre di chi li piange, negli sguardi che non li vedranno mai più, nella sera che chiude il giorno come la morte chiude la vita, nelle tende che sono tirate per rinchiudersi nell’oscurità del proprio dolore. 

Il poeta Dylan Thomas, gallese come Owen, dirà che c’è in realtà solo una guerra, quella dell’uomo contro l’uomo, ovvero quella di Caino e Abele. Nei versi di Owen troviamo la consapevolezza che tutte le guerre sono uguali perché vivono di parole usate per la propaganda, piuttosto che per la comprensione. Allora, le parole di poeti come Wilfred Owen servono ad ammonire, a ripetere che il loro scopo è creare una comunità, non distruggerla, che la poesia è creazione a difesa della luce negli occhi di ragazzi innocenti.

 

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