Quanto è delicato, fragile, a volte, l’amore? Come possiamo scegliere le parole migliori per non ferirlo? E quanto di questo amore possiamo sondare per scoprirne il segreto?
Admonition (1959)
Ammonimento
If you dissect a bird
Se dissezioni un uccello
To diagram the tongue
Per fare un grafico della lingua
You'll cut the chord
Taglierai le corde
Articulating song.
Che articolano il canto.
If you flay a beast
Se scortichi un animale
To marvel at the mane
Per scoprire l’incanto della criniera
You'll wreck the rest
Distruggerai il resto
From which the fur began.
Da cui la pelliccia nasce.
If you pluck out the heart
Se estrai il cuore
To find what makes it move,
Per capire cos’è che lo muove,
You'll halt the clock
Fermerai l’orologio
That syncopates our love.
Che dà il ritmo sincopato al nostro amore.
L’amore può essere come un uccello, leggero e con ali per volare, o maestoso come un animale selvatico che ha nella bellezza della criniera il potere di meravigliare. La poetessa americana Sylvia Plath (1932-1963) ci ammonisce: se si volesse dissezionare un uccello per comprenderne l’azione della lingua con cui genera il canto prezioso, si ucciderebbero anche le corde che quel canto producono. Allo stesso modo, se si volesse scoprire cos’è a rendere la criniera di un cavallo o di un leone ricca e seducente e per questo si spogliasse l’animale della pelliccia, se ne causerebbe la morte, distruggendone in questo modo, per sempre, la bellezza. E così succederebbe anche col nostro cuore: estrarlo per capire come funziona significherebbe mettere fine al suo battito, quel battito che ci affascina.
Contro cosa ci ammonisce Plath? Contro la volontà di voler ad ogni costo scoprire cos’è che produce vita e bellezza? Contro quella scienza che pretende di poter spiegare tutto, magari anche come nascono i sentimenti? L’ammonimento più profondo è quello di prestare attenzione a non distruggere la meraviglia, il mistero, di poter accettare i limiti della conoscenza, perché l’analisi estrema e continua può distruggere, causando la morte di quello stupore parte integrante dell’ammirazione iniziale. L’uccellino e l’animale con la folta criniera potrebbero anche essere metafora della lotta della Plath stessa contro la malattia mentale: cosa resterà di lei, della sua anima, una volta che l’analisi della mente avrà scandagliato i percorsi del suo intimo? Resterà la meraviglia del suo essere? Quanto il dolore della psiche è nemico, e quanto di esso è insito nell'essenza della nostra individualità? E’ forse la pena stessa a renderci chi siamo, a costruire la nostra anima? Quanto di questa pena possiamo uccidere prima di uccidere ciò che siamo intimamente?
E certo questo ammonimento vale anche per l’analisi della poesia in generale: i versi devono portare gioia, seminare domande, creare empatia, comunione di sentimenti, stupore per il potere delle parole, meraviglia per la ricchezza delle immagini e non si deve mai far morire tutto questo nello studio dei meccanismi, perché i meccanismi che regolano l’esistenza di un testo poetico sono solo un mezzo, mai il fine.
Nella terza strofa, il messaggio si fa più personale, e la poetessa pare rivolgersi alla persona amata, ammonendola a non voler ad ogni costo scoprire come funziona il ritmo del loro cuore, del loro amarsi. E questo cuore ha un ritmo sincopato, inaspettato, diverso da ciò che ci si aspetterebbe, a sottolineare l’unicità, la singolarità di ogni amore. Questo “You” cui Plath si rivolge può essere un amore preciso, oppure essere una forma impersonale, a rendere universali il messaggio e l’ammonimento, ma potrebbe anche essere la poetessa che parla a se stessa, esortandosi a non riflettere, analizzare troppo, a non tornare ancora ed ancora sulle cose dette e fatte.
E spesso sono proprio le parole sbagliate, quelle che non si sarebbe dovuto dire, quelle dell’incomprensione a rovinare l’amore:
Ieri sera era amore,
io e te nella vita
fuggitivi e fuggiaschi
con un bacio e una bocca
come in un quadro astratto:
io e te innamorati
stupendamente accanto.
Io ti ho gemmato e l’ho detto:
ma questa mia emozione
si è spenta nelle parole.
Solo un breve spazio di tempo, forse solo una notte, è passata per Alda Merini (1931-2009) da quando l’amore per Ettore, il marito, pareva un abbraccio stretto e infinito, come quello di due amanti in un dipinto astratto, tanto legati da intrecciare baci e membra così intensamente da parere abbiano una bocca sola, amanti fuggiti dalla normalità della vita per creare un viluppo unico e intimo. Eppure le parole dette ad esternare le gemme, il gioiello di questo amore erano quelle sbagliate, tanto sbagliate da soffocare il sentimento con le stesse parole che avrebbero dovuto incoronarlo.
Le parole possono esserci amiche e nemiche, scaldarci e raggelarci, possono ferire senza che ce ne accorgiamo o, quelle tanto desiderate, possono non arrivare mai; ed è così perché le parole sono l’eco del mistero della nostra essenza.