Elda continua con la Bibbia: Giuseppe l'interprete dei sogni.
La storia di Giuseppe è molto bella, ma molto lunga, perciò cercherò di accorciarla il più possibile per non annoiarvi.
Giacobbe ora chiamato da Dio (Israele) ebbe molti figli, Lia gli diede sei maschi e una femmina, due maschi glieli diede Rachele, altri quattro li ebbe dalle ancelle delle mogli, perciò in tutto erano 12 maschi e una sola femmina.
Lui però più di tutti amava Giuseppe, che glielo aveva dato la sua amata Rachele, quando lui era già vecchio. In quel tempo, Giuseppe aveva solo 17 anni ed era molto invidiato e odiato dai suoi fratelli, che notavano la preferenza del padre, anzi in quel periodo Giacobbe gli aveva anche regalato una veste colorata, con le lunghe maniche.
Giuseppe fece un sogno e ingenuamente lo raccontò ai suoi fratelli:
“Stavamo in un campo di grano appena mietuto, ognuno di noi aveva un covone, solo il mio stava ritto in mezzo al campo e gli altri s’inchinavano a lui”.
Poi fece un altro sogno e anche questo lo raccontò:
“Il sole e la luna e undici stelle, si prostravano davanti a me”
Stavolta il padre lo rimproverò:
“Cosa pensi, che io tua madre e i tuoi fratelli dovremmo inchinarci davanti a te?”
Un giorno il padre gli ordinò di andare sui pascoli dove si trovavano i suoi fratelli e di tornare a riferirgli se tutto andava bene. Erano pascoli immensi, grandi terre, camminò molto per arrivare fin da loro.
Giuseppe era partito, indossando l’abito nuovo e i fratelli quando lo videro arrivare da lontano, presi da una grande gelosia pensarono di eliminarlo e uno di loro disse:
“Ecco che arriva il sognatore, adesso lo faremo fuori, così non sognerà più”.
Però, Ruben il maggiore, lo volle salvare e ordinò che fosse calato vivo in una cisterna vuota (pensava che poi l’avrebbe fatto fuggire), così lo imprigionarono laggiù.
Mentre mangiavano e pensavano al da farsi, passò una carovana di Ismaeliti diretti in Egitto per vendere là i loro prodotti, i loro cammelli erano carichi di resina, balsamo e laudano, allora Giuda, uno degli undici fratelli disse:
“Se uccidiamo Giuseppe non ci guadagniamo niente, perché non lo vendiamo a questa gente.”
Difatti venne pagato loro “20 Sicli” d’argento. Poi questi scriteriati, portarono al padre la veste di Giuseppe strappata e sporcata col sangue di un agnello e questi pianse amaramente il figlio che credeva morto, sbranato da qualche animale feroce.
Intanto Giuseppe arrivato in Egitto, fu venduto a Polifar, consigliere del Faraone e comandante delle guardie.
Giuseppe si fece benvolere dal suo padrone, lo serviva con zelo e intelligenza, così Polifar aveva affidato a lui parecchie mansioni.
Dovete sapere che Giuseppe non era solo questo, ma aveva anche il corpo perfetto e un viso molto bello.
La moglie del suo padrone se ne invaghì perdutamente, ma ogni volta che lei gli si offriva, lui si allontanava dicendo che mai e poi mai avrebbe tradito il suo signore.
Allora lei per vendicarsi, un giorno che suo marito rientrava da uno dei suoi viaggi d’affari, si stracciò le vesti, mise sottosopra la stanza e raccontò al marito piangendo, che era stato Giuseppe, perché voleva possederla, ma lei si era difesa.
Naturalmente il povero marito credulone (di donne così, ce ne sono ancora al giorno d’oggi e se dico questo è perché ne ho conosciuto qualcuna) fece incarcerare il povero ed innocente Giuseppe.
Ma il suo comportamento in prigione fu così limpido che il comandante della galera, affidò a lui tutti i carcerati.
Arrivarono in quel carcere anche il coppiere e il panettiere del Faraone e anche loro furono affidati a Giuseppe.
Questi due una notte fecero lo stesso sogno e si confidarono con lui, che rispose:
“Fra tre giorni il coppiere sarà scarcerato e ripreso al servizio del Faraone e il panettiere invece fra tre giorni verrà ucciso”
Questo si avverò, proprio il giorno del compleanno del Faraone, egli graziò il coppiere e lo riprese al suo servizio, ma fece impiccare il panettiere, come aveva predetto Giuseppe.
Intanto il tempo passava, dopo due anni il faraone fu turbato da un brutto sogno. Dal Nilo uscivano sette vacche bianche belle grasse, ma poi ne uscivano altre sette magrissime e affamate che divoravano quelle grasse. Sognò ancora sette spighe di grano gonfie di chicchi maturi, ma poi altre sette vuote e arse dal vento, che inghiottivano quelle grasse.
Il Faraone convocò tutti gli indovini e i saggi d’Egitto, ma nessuno gli diede una risposta esauriente. Allora il Coppiere si ricordò di Giuseppe e il re lo fece chiamare e lui spiegò i sogni in questo modo:
“Ci sarebbero stati sette anni di abbondante raccolto, ma poi sette anni di carestia”.
Poi consigliò al Faraone di raccogliere e mettere da parte durante il periodo di abbondanza, per poi riuscire a superare la carestia.
Il Faraone vedendo l’intelligenza di questo ragazzo lo nominò Vicerè d’Egitto, dandogli in mano tutte le mansioni necessarie per salvare l’Egitto dalla miseria e questo ragazzo che aveva compiuto solo trent’anni riuscì a salvare questo popolo. Poi il re gli diede in sposa la figlia di un dignitario di corte che gli diede due figli, che lui chiamò, Manasse ed Efraim.
Intanto anche dove stava la numerosa famiglia di Giacobbe, coi suoi undici figli tutti con famiglia, era arrivata la carestia e se non rimediavano sarebbero tutti morti di fame.
Si vociferava che in Egitto ci fosse abbondanza di grano, allora Giacobbe mandò i suoi figli, con molto denaro, perché ne comprassero da questo grande personaggio, di cui si parlava tanto.
Quando si presentarono da Giuseppe naturalmente non lo riconobbero, dal momento che portava la parrucca di capelli neri e lisci, come tutti gli egiziani e gli occhi truccati. Lui invece li riconobbe e nascostamente pianse. Poi fece loro delle domande, cosi venne a sapere che il padre era ancora vivo ed era rimasto a casa col figlio più piccolo “Beniamino”, dal quale non si staccava mai da quando aveva perso un figlio che si chiamava Giuseppe.
Allora Giuseppe preso da un momento di rancore, li accusò di essere spie e li fece imprigionare, ma poi essendo di cuore tenero ne tenne solo uno in ostaggio “Simeone” e lo fece incatenare sotto i loro occhi.
“Ora portate il grano alle vostre famiglie, ma se rivolete vostro fratello dovete portarmi a far vedere Beniamino, (Che era figlio di Rachele la sua stessa madre) così vedrò se avete detto la verità”.
Loro tornarono a casa e quando aprirono i sacchi, trovarono il denaro che avevano usato per pagarlo.
Raccontarono tutto al padre, lui pur essendo molto vecchio non lasciò andare soltanto Beniamino, ma si mise anche lui in viaggio coi soldi che avevano ritrovato per riconsegnarli.
Naturalmente lo trasportarono sopra un carro e ci misero il tempo che si impiegava allora quando si viaggiava.
Arrivati davanti a Giuseppe, lui nel rivedere il vecchio padre pianse, si tolse la parrucca, si lavò il viso togliendosi il trucco e il padre e i fratelli lo riconobbero e si inchinarono fino a terra, davanti a lui, così si avverò il sogno dei covoni di grano che aveva fatto in passato.
Il Faraone venuto a sapere ciò, ordinò di andare a prendere le loro famiglie, avrebbe dato loro la parte migliore dell’Egitto così avrebbero mangiato e migliorato i prodotti della terra.
La famiglia di Giacobbe quando si trasferì in Egitto contava 70 persone più i bambini.
Con questo racconto finisce la parte della Bibbia che viene chiamata “Genesi”, ma fatevi coraggio, perché io ho intenzione di continuare con “L’Esodo”.
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Adesso in dialetto:
La storia ed Giuseppe, l’è bèla, ma l’è anch leònga.
Giacobbe, che po’ Déo a al gh’aiva cambia nom cun (Israele) al gh’aiva na meùcia ed fieò, Lia la gh’aiva dà se masch e na femna, po deù agh iaiva dà Rachele e deù pr’un, al du ancèli dal muieri, in teùtt iérne 12 masch e na sula femna.
Giacobbe, però al preferiva Giuseppe cal gh’aiva aeù, quand urmai l’era vecc. In cul periodo l’è Giuseppe l’aiva cumpi 17 ann e su pà al gh’aiva regalà na bela vesta culurada e cul manghe leònghi e anch per quest l’era invidià e udià dai seò fradè.
Una nòta giuseppe l’ha fàt un insòni e ingenuament a l’ha cuntà ai seò fradè:
“Ierne teùcc in t’un camp ed furment apena mdù iaivne fat di còv, ma al mèo a steva drètt e i vostre invèci ièrne chinà”.
Po’ al s’insuniéva natra volta:
“Al sul la leùna e eùndse stèli as chinèvne davanti a me”.
Stavòlta al padre agh bravè:
“Cusa penste chi me e tu mamma e i teò fradè i duvren inchinas davanti a te?”
Po’ un dè su pà a là mandà andòva i seò fradè ierne fòra al pegre e al duviva arturnàr cun dal buni nutìsie.
Giuseppe al s’infilèva la vesta neòva e ubidient al partiva.
I seò fradè quand i l’an vést arivar, ciapà dàla gelusèa ian pensà ed fal feòra e eun l’ha dèt:
“Ecco al sugnadùr adésa i la féma feòra achsè an s’insònia peù”.
Però Ruben al peù vècc a li vriva salvàr e l’urdinè a ch’iatre ed calàl dentre a na cisterna veòda (al penseva po’ ed fal scapar àla nòta)
I seò fradè laseù insema mentre i magnèvne, intant i pensevne cusa far e in tal fratèmp a paseva na caruvana direta in Egétt, alura Giuda l’ha det:
“Si i la maséma in ghè guadagnèma gnent, si i la vendema i ciapéma quel”.
Difàti igh li paghèn “20 sicli” d’argènt. Po ste branch da scriterià i purtèvne la vesta ed Giuseppe sciancada e spurcada cun al sangue d’un agnell a su pà, chi per pogh al muriva dal dispiasèr, al penseva chi qualca bestia a l’aèsa masà e mangià.
Intant Giuseppe l’invièva la su aventeùra in Egètt. Agniva vendù a Polifar cl’era un cunsiglier dal Faraun e cmandant dal guardie.
Giuseppe agh la metiva teùta per sevir al su padrun cuma as duviva. L’era educà e anch inteligènt.
I duvi saver chi Giuseppe a n’era mea sul quest, ma l’era ben fat e i lineament dla fàcia perfett, alura la muiera dal su padrùn l’as gh’èra inamurada màta, ma ogni vòlta chi le la sghè ufriva lu andeva véa e al ghe dsiva chi mai e pu mai l’arè tradì al su padrùn.
Alura lé per vendicàs, un dè chi su marì l’era dre arturnàr a cà, la se sciancada la vesta las disfata al pupòll ed cavì, po’ la scaravultà al scrani in tèra e l’ha cuntà al marì cl’era sta Giuseppe, ma le la ghaiva resisti.
Achsè ste marì tratt in ingann da ste dòna la fat metre in persùn
Al povre Giuseppe chi peò inucent d’acsè an pudiva méa esre (stel dunlàsi, a cumenteva mi mama).
In persùn però Giuseppe al se fàt vrer ben da teùcc, tant che al cmandànt al gh’afideva teùcc i persunèr.
Un dè po’ l’è arivà in persùn l’ost e al furnàr dal Faraùn, me po’ in so mèa div al perché, anca lur iaràn cumbinà quel ed gross, e al cmandànt a ià mèss in t’al man ed Giuseppe.
Na nòta sti deù iàn fatt al stess insòni e i l’an cuntà a ste ragastass,
c’agh rispudiva:
“Fra tri dè L’ost (al cupèr) al srè arturnà far al su lavur, mentre al furnar i la masaràn”.
Difati quest al se averà, dop tri dè al Faraun al cumpiva iàn e l’ha grasià al cupèr cl’è arturnà a servìl e fat impicàr al furnàr.
Intant al temp al pasèva e Giuseppe l’era sempre in persùn per quel ca n’aiva méa fatt.
Dop du ann al Faraun al feva deù breùt insòni. Dal Nilo agniva feòra sett vachi bianchi e beli gràsi, ma po’ a n’in gniva fòra ater sett magri e malandadi c’al magnèvne c’al grasi. La seconda vòlta al s’insunièva sett spighi ed furmènt bèli pieni, ma po’ ater sett veòdi e breùsadi dal vent c’al magnèvne c’al gràsi.
Al Faraun la radeùna teòcc i magh e iindvìn ed l’Egètt, ma anseùn là saù risponghe. Alura al cupèr al se arcurdà ed Giuseppe, chi tant temp préma l’aiva indvinà al su insòni.
Al re a l’ha fat ciamar e Giuseppe c’al ghà saù dir cusa avriva dir:
“A ghè sré sta sett ann d’abundansa, ma ater sett ed carestèa”.
E l’ha cunsiglià al Faraun ed metre da parta teùtt cul furmènt c’asre gnu i prém sett ann, per druvàl in t’al temp ed carestèa.
Al Faraun l’era achsè cuntént d’aver truvà na persuna achsè inteligenta ca l’ha numinà Vicerè ed teutt l’Egètt, achsè Giuseppe al pudiva far e disfàr cuma avriva leù.
Intant duva a steva Giacobbe cui seò eùndse fieò cun al su muieri e i fieò e teuti al spusi e i nuùd l’era arivà la carestèa e s’in truvévne méa da mangiàr i srèn mort teùcc ed fam.
Iaivne anca lur sentì dir che in Egett a gh’era abundànsa ed furmènt e a gh’era un sgnurùn ca li vendiva a chi agh n’aiva bsògna. Alura Giacobbe al ghà mandà anch i seò fieò cun na meùcia ed palanch da pagar.
Quand i s’en presentà da Giuseppe, dop a tant temp in l’an méa arcgnusù, dal mument c’al purtèva la pareùca e ioc tint Cuma a s’uséva in Egètt ed chi temp là.
Lu invèci a iaiva rcgnusù e al féva fadiga a far finta da gnènt, ma avriva saver ed su pà e ed su fradèl Beniamino. Achsè lur igh cuntevne teutt.
Achsè giuseppe lè gnu a savèr chi su pà l’era ancòra viv e su fradèl l’era rmas a cà cun lu c’a ne vriva mèa separasne dòp cl’aiva pers un fieòl c’as ciamèva Giuseppe.
Alura Giuseppe al se fat ciapàr da un mument ed rabbia e a ià fat impersunàr teùcc cun l’acusa d’esre dal spéi. Ma po’ l’era tropp bun a ià mandà a cà e l’ha tgneù persunèr sul “Simeone” si la vrivne arvedre i duvivne purtagh Beniamino:
“Achsè i ved si m’aì détt la verità”.
Lur iarturnévne a cà teucc pensierùs, po’ quand iàn avert i sacch ed furmént i ghan truvà dentre i sòld chi iaivne pagà.
Alura ien andà a cuntàr teòtt a su pà, lu po’ l’era vecc c’an se arsiva peò in t’al gamb, ma l’à dett:
“Beniamino da lu nò, i vegn me a cumpagnal”.
I l’an cargà in t’un bròss e la purtèn in Egètt, dòva i gh’en arivà dop na meùcia ed temp.
Arivà davanti a Giuseppe, quest in tl’arvedre su pà a n’à peò resistì, al s’è cavà la pareùca al s’è lavà iocc e al s’è fatt arcgnòsre, alura lur i s’en inchinà teucc davanti a lu fin in tèra, acsè ian finalmént capì al significàt dl’insòni cl’aiva fat Giuseppe ed chi còv chi i s’inchinevne davani al seùo.
Al Faraun quand a l’ha saù al gh’à urdnà d’andàr a teòr al seò famèi e ed Purtali in Egètt al gh’arè da la parta mei dal paèsda cultivàr.
La famèa ed Giacobbe cioè (Israele) quand la s’è trasferida in qul paes lè la cunteva 70 anme peò i ragaset.
E che a fness la “Genesi” dòp a ghè “L’esodo”, fev curàgg perché iò intensiùn d’andàr avanti.
(Elda Zannini)
Grazie signora Elda,in un mondo quasi completamente scristianizzato,ha il coraggio di diffondere la parola di Dio ! Cesare