Quando Eugenio Montale (1896-1981) pubblicò la raccolta Ossi di Seppia, nel 1925, gli bastarono tre parole per definire quella che è una malattia tanto comune quanto sottovalutata: la depressione. Il “male di vivere” rappresenta la condizione di chiunque si senta in disaccordo con ciò che lo/la circonda, di chi non riesce a provare il riso quando tutti ridono, di chi piange per qualcosa che non muove nessun altro, di chi si sente sempre su un piano diverso, di chi avverte che i parametri dell’ambiente in cui vive non si accordano col suo sentire:
Spesso il male di vivere ho incontrato (1925)
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi, fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Vivere in questa condizione diventa estremamente faticoso, la disarmonia che si avverte è paragonata da Montale ad una corrente che non trova sbocco, che “gorgoglia”, protestando, per trovare sfogo alla forza che avverte dentro di sé; ma è anche come la foglia essiccata dall’arsura, metafora di chi si senta prosciugato da una condizione di dissonanza col resto del mondo; ed è pure come un “cavallo stramazzato” al suolo, altra metafora per chi provi la fatica di cercare un equilibrio tra il sé e gli altri, fatica che può portare alla morte come per il povero cavallo che ha lavorato fino allo sfinimento.
Il “bene” di vivere può arrivare solo attraverso il raggiungimento di una “divina Indifferenza”: questa “Indifferenza”, con la lettera maiuscola a sottolinearne la natura eccezionale, arriva come un “prodigio” che ci rende simili a statue impassibili, nel loro distacco, verso le pene umane; oppure simili ad una nuvola, alta in cielo, lontana dai dolori terreni; o simili ad un falco che vola al di sopra di tutto, librandosi pronto a colpire, nella distanza fredda e inesorabile degli animali da preda.
Anche l’americana Anne Sexton (1928-1974) vede nella forza della natura immagini che rispecchiano la sensazione di disarmonia nel vivere quotidiano, e queste immagini portano dritte all’idea della morte:
The Fury of Rain Storms, (1974)
La Furia dei Temporali
The rain drums down like red ants,
La pioggia batte scendendo come formiche rosse,
each bouncing off my window.
rimbalzando ognuna dalla mia finestra.
These ants are in great pain
Queste formiche soffrono intensamente
and they cry out as they hit
e gridano quando vanno a colpire
as if their little legs were only
come se le loro zampette fossero solo
stitched on and their heads pasted.
attaccate col filo e le loro teste incollate.
And oh they bring to mind the grave,
E oh fanno pensare alla tomba,
so humble, so willing to be beat upon
così umile, così pronta a essere sferzata
with its awful lettering and
con le sue terribili parole sulla lapide e
the body lying underneath
il corpo che giace lì sotto
without an umbrella.
senza l’ombrello.
Depression is boring, I think
La depressione è noiosa, penso
and I would do better to make
farei meglio a fare
some soup and light up the cave.
della minestra e un po’ di luce nella caverna.
La mente crea l’immagine inquietante delle gocce di pioggia che si trasformano in formiche rosse, che piangono appena toccano il vetro della finestra. La pioggia diventa viva, viva perché animalesca e perché del colore del sangue delle ferite dell’anima. Le formiche riflettono anche la caducità dei nostri corpi: le zampette e le teste sono a malapena attaccate, come parti di una marionetta. E così il carattere fuggevole degli insetti conduce al pensiero della tomba, che accoglie la pioggia con una rassegnazione voluta, su una lapide che riporta le parole terribili, perché conclusive, che rinchiudono la nostra vita. Il corpo che giace all’interno, dice la poetessa con un sorriso macabro, non ha neanche un ombrello per proteggersi. Questo arrendersi completamente alla morte, al destino, ci riporta alle immagini di Montale della statua, della nuvola e del falco per descrivere l’indifferenza di un universo che vive per sé, senza curarsi degli esseri umani, come la pioggia che scende incurante dei corpi che bagna.
Negli ultimi tre versi troviamo immagini di vita quotidiana, banale, come il preparare la minestra e accendere la luce, il tutto in una casa che potrebbe anche essere una caverna, a indicare quanto la nostra vita può in sostanza non essere poi mutata molto nei millenni, perché restiamo creature indifese che si rifugiano in una grotta. Ma questi versi richiamano anche alla mente le parole spesso rivolte a chi soffre di depressione, cioè di muoversi, darsi da fare, non indugiare nelle proprie fantasie, nonostante il fatto che questa sia proprio una delle cose più difficili, perché è esattamente con la normalità che la malattia si scontra, creando uno sbilanciamento, una disarmonia, un “male di vivere” che mette il nostro spirito interiore in conflitto con il mondo esterno.
La depressione di cui Anne Sexton soffriva infine richiese il sacrificio estremo, e la poetessa morì suicida, come l’amica Sylvia Plath, dopo anni passati a combattere la malattia, e dopo aver cercato di tenerla sotto controllo attraverso la poesia, che offre le parole per portare dall’anima alla pagina il dolore, la sofferenza, la dissonanza. Spesso, nella nostra vita, incontriamo “la statua, “la nuvola” e “il falco” in persone che riescono a raggiungere la “divina Indifferenza” consentendo loro di vedere il mondo e le sue pene con distacco, così da non esserne feriti, ma questa stessa “Indifferenza” è anche quella che troppo spesso rende ciechi e sordi al suono della poesia, dei gridi di dolore e di spiritualità che sgorgano dai luoghi più nascosti del nostro essere.