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LE VOCI DELLA POESIA

Le ‘ali’ della poesia

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A differenza di noi, gli uccelli non sono vincolati al suolo. Possono staccarsi col corpo dalla forza che ci tiene a terra, e impadronirsi del niente apparente che è l’aria. Questa dualità di terra e cielo, di realtà e immaginazione, materia e spirito li rende molto spesso protagonisti della poesia, diventando la rappresentazione dell’animo umano. Nella poesia Night Crow di Theodore Roethke (1908-1963) pochi versi rendono efficacemente, in modo quasi pittorico, il volo spaventato dell’anima attraverso lo spalancare delle ali di un corvo.

Night Crow, 1948
Corvo notturno

When I saw that clumsy crow
Quando ho visto quel corvo goffo
Flap from a wasted tree,
Battere le ali da un albero emaciato
A shape in the mind rose up:
Una forma si alzò nella mente
Over the gulfs of dream
Sopra i baratri del sogno
Flew a tremendous bird
Volò un uccello tremendo
Further and further away
Sempre più lontano
Into a moonless black,
In un nero senza luna,
Deep in the brain, far back.
Nel profondo della mente, lontanissimo.

Il corvo goffo che si alza pesante da un albero avvizzito diventa la personificazione dell’uccello terribile, essere alato inquieto, che abita i recessi più oscuri, senza luce, della nostra anima quando è pervasa dalla notte dello spirito. È un uccello goffo perché carico delle nostre paure, ansie e incertezze, che si solleva da un albero morto, senza vita, e che abita le profondità della mente, tanto in fondo da arrivare alla nostra essenza più misteriosa. Il corvo di Ted Hughes (1939-1998) non è solo una presenza inquietante: acquista addirittura toni macabri e quasi insistentemente morbosi:

King of Carrion, 1970
Re di carogna

His palace is of skulls.
Il suo palazzo è fatto di teschi.

His crown is the last splinters
La sua corona delle ultime schegge
Of the vessel of life.
Del recipiente della vita.

His throne is the scaffold of bones, the hanged thing’s
Il suo trono è l’impalcatura di ossa, lo strumento di tortura
Rack and final stretcher.
E ultima barella dell’impiccato.

His robe is the black of the last blood.
Il suo manto è il nero dell’ultimo sangue.
His kingdom is empty-
Il suo regno è vuoto-
The empty world, from which the last cry
Il mondo vuoto, da cui l’ultimo grido
Flapped hugely, hopelessly away
Volò intenso, via senza speranza
Into the blindness and dumbness and deafness of the gulf
Nella cecità e mutismo e sordità dell’abisso

Returning, shrunk, silent
Tornando, avvizzito, silenzioso

To reign over silence.
A regnare sul silenzio.

Il poeta inglese Ted Hughes

Gli anni precedenti alla pubblicazione della raccolta Crow, di cui la poesia fa parte, non furono certo facili per Hughes che aveva visto il suicidio della moglie, la poetessa Sylvia Plath, e poi quello, avvenuto con le stesse identiche modalità, dell’amante Assia Wevill. Tuttavia non dobbiamo farci scoraggiare dall’immagine di questo uccello sovrano, il cui palazzo è una costruzione di teschi, il cui trono è fatto di ossa e la cui corona è formata dalle schegge ossee delle creature uccise. Hughes crea un linguaggio poetico che vuole rappresentare l’essenza della natura, potente e spietata, ma non per volontà di spietatezza, semplicemente perché la natura è così, non esprime volontà, semplicemente esiste così com’è. Difficile, per noi umani, entrare in questa visione, quando nel nostro vivere quasi tutto è permeato di volontà, di scelta: Hughes dipinge ciò che è fuori di noi interpretandolo con una lingua scarna e apparentemente cruda per comprendere una realtà a noi ostica, tentando, con l’eliminazione di tutti gli orpelli di cui il linguaggio si può rivestire, di arrivare al cuore del vero. Così il corvo, re delle carogne, non è crudele, vive solo la sua essenza per come è stato destinato a realizzarla. L'ultimo grido dell’animale vittima del corvo riecheggia nel nulla di un mondo cieco, sordo e muto a ciò che accade perché deve accadere. Questa voragine di un universo vuoto e, tuttavia, intriso di mistero ci riporta alla profondità dei versi di Roethke, una profondità che percepiamo ma fatichiamo a capire.
Invece l'uccellino di Emily Dickinson (1830-1886) ha una sua volontà:

A train went through a burial gate, 1862 (F397- J1761)*
Un corteo varcò il cancello del cimitero

A train went through a burial gate,
Un corteo varcò il cancello del cimitero,
A bird broke forth and sang,
Un uccello irruppe nel canto,
And trilled, and quivered, and shook his throat
E trillò, e fremette, e fece vibrare la gola
Till all the churchyard rang;
Finché tutto il camposanto ne risuonò;

And then adjusted his little notes,
E poi aggiustò le piccole note,
And bowed and sang again.
E si chinò e cantò di nuovo.
Doubtless, he thought it meet of him
Indubbiamente, pensò fosse doveroso
To say good-by to men.
Dire arrivederci agli uomini.

Il famoso Cimitero di Mount Auburn che Emily Dickinson visitò e di cui parlò in una sua lettera

La relazione di Emily Dickinson con la morte e l’immortalità, che la sua famiglia del New England puritano dava per scontata, non era semplice. Tuttavia, in questi versi, la presenza dell’uccello la rende leggera, e non ci figuriamo questa creatura come un corvo goffo, carico delle nostre paure, o come il sovrano di un ineluttabile regno di morte, ma come una presenza che rende l’inevitabilità del sonno eterno più accettabile. L’uccellino saluta col canto il corteo, augurando l’arrivederci verso un’altra vita, lieve come le ali di un angelo, impalpabile come l’anima che se ne va.

*Le poesie di Emily Dickinson, per la grande maggioranza non pubblicate in vita, sono state ordinate cronologicamente prima da Thomas H.Johnson e poi da R.W.Franklin, e ogni poesia è solitamente accompagnata dai numeri assegnati dai due studiosi.