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Sogno e morte

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Dice il personaggio di Prospero ne La Tempesta di William Shakespeare: “Siamo fatti / della stessa sostanza dei sogni, e la nostra breve vita / è inscritta in un sonno”, (We are such stuff / As dreams are made on, and our little life / Is rounded with a sleep). Prospero ha poteri magici e, nel momento in cui fa svanire le immagini da sogno con cui ha intrattenuto la figlia Miranda ed il suo amato  Ferdinand, rivela la natura inconsistente degli spiriti protagonisti dello spettacolo, attori che si dileguano “into thin air”, nel nulla, come polvere sottile nell’aria invisibile. Così facendo, Prospero, in quanto essere in carne ed ossa che crea mondi insussistenti,  confonde i confini tra il reale e l’immaginario, tra il sonno e la veglia, dolorosamente consapevole della brevità della vita umana, che dura quanto un sogno. 

Il poeta americano Theodore Roethke (1908-1963), premio Pulitzer nel 1954, inventa un mondo di paradossi, dove il sonno e la veglia si confondono e si completano a vicenda:

The Waking, 1953

Risveglio

 

I wake to sleep, and take my waking slow.

Mi sveglio per il sonno, e prendo con lentezza il mio risveglio.

I feel my fate in what I cannot fear.

Sento il mio destino in ciò che non posso temere.

I learn by going where I have to go.

Andando imparo dove devo andare.

 

We think by feeling. What is there to know?

Pensiamo col sentire. Cosa c’è da sapere?

I hear my being dance from ear to ear.

Ascolto il mio essere danzare da un orecchio all’altro.

I wake to sleep, and take my waking slow.

Mi sveglio per il sonno, e prendo con lentezza il mio risveglio.

 

Of those so close beside me, which are you?

Di quelli che mi sono più vicini, chi sei tu?

God bless the Ground! I shall walk softly there,

Dio benedica il Suolo! Lo calpesterò delicatamente.

And learn by going where I have to go.

E andando imparo dove devo andare.

 

Light takes the Tree; but who can tell us how?

La Luce prende la Pianta; ma chi può dirci come si fa?

The lowly worm climbs up a winding stair;

L’umile verme si inerpica su una scala tortuosa;

I wake to sleep, and take my waking slow.

Mi sveglio per il sonno, e prendo con lentezza il mio risveglio.

 

Great Nature has another thing to do

La Grande Natura ha un’altra cosa da fare

To you and me; so take the lively air,

A te e me; quindi respira l’aria vivace,

And, lovely, learn by going where to go.

E andando, dolcemente, impara dove andare.

 

This shaking keeps me steady. I should know.

Questo tremito mi tiene saldo. Dovrei saperlo.

What falls away is always. And is near.

Ciò che se ne va è per sempre. Ed è vicino.

I wake to sleep, and take my waking slow.

Mi sveglio per il sonno, e prendo con lentezza il mio risveglio.

I learn by going where I have to go.

Andando imparo dove devo andare.

 

Il poeta americano Theodore Roethke, Premio Pulitzer 1954

Ogni risveglio è un riscivolare nel sonno, perché cosa sappiamo, noi, della nostra vita? Con la forma popolare della villanella (cinque terzine e una quartina finale con due ritornelli) il poeta ci invita a prendere la nostra vita da svegli con dolcezza, senza affanni, a non temere il nostro destino, a conoscere e pensare coi sensi, col nostro essere che danza coi suoni che ci pervadono le orecchie. Come possiamo veramente conoscere chi ci ama, il modo in cui la luce colpisce la pianta, come anche l’essere più infimo, un verme, riesce ad arrampicarsi su una scala tortuosa? La Natura ci è spesso incomprensibile, ha un piano, per noi tutti, imperscrutabile, e allora viviamo lentamente i nostri attimi, benediciamo il suolo su cui camminiamo, respiriamo il dono dell’aria; anche i momenti di tremore ci tengono saldi e ciò che pensiamo perduto è sempre con noi, perché vivere è un mistero e possiamo solo imparare a farlo vivendo, con l’intuizione dei sensi, accettando il limite sottile e sfumato tra sonno e veglia.

Se per Roethke questa sfumatura porta ad una volontà di accettazione, la realtà del sogno conduce, invece, Emily Dickinson (1830-1886) ad afferrare quanto visione onirica e vita vissuta in effetti si sovrappongano con risultati sconfortanti:

We dream - it is good we are dreaming, (J531/F584)*, 1862/1863

Sogniamo - è un bene sognare

 

We dream—it is good we are dreaming—

Sogniamo—è un bene sognare—

It would hurt us—were we awake—

Ci ferirebbe—se fossimo svegli—

But since it is playing—kill us,

Ma siccome è un gioco—uccidiamoci,

And we are playing—shriek—

E poiché giochiamo—urliamo—

 

What harm? Men die—externally—

Che male c’è? Gli uomini muoiono—esternamente—

It is a truth—of Blood—

E’ una verità—di Sangue—

But we—are dying in Drama—

Ma noi—moriamo come in un Dramma—

And Drama—is never dead—

E il Dramma—non muore mai—

 

Cautious—We jar each other—

Cauti—Ci urtiamo—

And either—open the eyes—

Ed entrambi attenti—ad aprire gli occhi—

Lest the Phantasm—prove the Mistake—

Per timore che lo Spettro—dimostri l’Errore—

And the livid Surprise

E la Sorpresa livida

 

Cool us to Shafts of Granite—

Ci renda fredda Stele di Granito—

With just an Age—and Name—

Con solo l’Età—e il Nome—

And perhaps a phrase in Egyptian—

E forse una frase criptica—

It’s prudenter—to dream—

E’ più saggio—sognare—

 

Emily Dickinson in una reinterpretazione dell'unica foto autenticata arrivata fino a noi.

Ciò che da svegli ci ucciderebbe è invece possibile nei sogni, dove le azioni più riprovevoli diventano un gioco, una recita, una finzione, un po’ come lo spettacolo di Prospero. Ma è una realtà di sangue che gli uomini muoiano, almeno nel corpo, e, all’epoca in cui fu scritta la poesia, in molti stavano morendo nella Guerra Civile americana, circostanza di cui Dickinson era dolorosamente consapevole. Il timore che la morte del sogno scivoli nella veglia ci fa diventare cauti, cerchiamo di non urtarci nel sonno uno con l’altro, per non svegliarci, abbiamo paura di aprire gli occhi e di incontrare lo Spirito che, in una sorpresa  bluastra di trapasso, ci mostrerà il nostro errore: quella morte del sogno è diventata realtà e noi siamo irrigiditi in un sudario, con solo una stele marmorea col nostro nome e date, e forse una dedica, a ricordarci. E allora, conclude la poetessa, meglio sognare.

La morte era una presenza molto familiare al tempo di Dickinson, e non solo a causa della guerra. Molto più familiare di quanto lo sia per noi, anche se non abbiamo perso l’abitudine di ucciderci l’un l’altro. Tuttavia, nonostante sembriamo così distanti dal puritanesimo della famiglia Dickinson in cui l’alleanza con dio offriva la certezza della risurrezione, la morte è sempre la presenza inquietante che la poetessa descriveva. Allo stesso modo, la vita può apparirci breve come un sogno, con un inizio e una fine che hanno la durata di un sonno, come dice Shakespeare,  e siamo portati a chiederci quanto reale sia quello che viviamo, dal momento che tutto può svanire in un attimo. Possiamo seguire il consiglio di Roethke, e vivere giorno per giorno, un passo dopo l’altro, imparando lentamente la lezione della vita; possiamo dibattere, nella mente, del mistero della morte, dell’immortalità, della fede, come Dickinson, e, soprattutto, possiamo usare la poesia per confortarci.

 

*Le poesie di Emily Dickinson, per la grande maggioranza non pubblicate in vita, sono state ordinate cronologicamente prima da Thomas H.Johnson e poi da R.W.Franklin, e ogni poesia è solitamente accompagnata dai numeri assegnati dai due studiosi.