Home Cultura Elda racconta: Mio fratello Nilo

Elda racconta: Mio fratello Nilo

1373
0

Sto cercando di mettere ordine nei cassetti, ma poi riesco solo a mettere in disordine, così frugando mi è capitato in mano una storia scritta da mio fratello Nilo, forse ricordi che gli sono tornati in mente durante una delle sue ultime scappate in Italia, prima che il diabete gli facesse spegnere completamente la vista. Come sapete lui non c’è più, fra poco sarà la festa dei morti e vorrei ricordarlo così. Lui era molto più bravo di me a scrivere, si legge in ogni sua riga quella leggera ironia che lo distingueva. Peccato che i suoi scritti, i suoi libri e le sue traduzioni siano state fatte in Portoghese sua seconda lingua parlata nello stato dell’Acre “Brasile” dove lui arrivò all’età di 28 anni e vi è rimasto per 60 anni e là riposa vicino ai suoi famigliari, ai suoi amici, alla gente che gli ha voluto bene.

 Il   titolo è questo:

Il pastorello proletario

C’era una volta alle falde di una montagna, molto amata, del Parco dell’Appennino Emiliano, un gruppetto di piccoli pastori, che nel lugubre anno di guerra del 1944, aiutavano le loro famiglie a sbarcare il lunario della miseria e della fame.

In quel tempo si coniugava solo il verbo “non c’era”.

Il pane era a tessera, il maiale non cresceva, per causa del “carbonchio”, quindi anche il salame non c’era, la salsiccia non c’era, la pancetta non c’era e non c’erano neanche il cotechino e i ciccioli.

Non c’era l’asfalto, non c’era la luce elettrica, c’era la “TIMO” coi telefoni a manovella per tutto il paese

Le scarpe non c’erano, si andava scalzi per tre stagioni consecutive

L’abbigliamento non c’era, neanche nel vocabolario, perciò tanto meno per i pastorelli della Pietra, uno straccio di camicia e vecchi pantaloncini rattoppati, spilungati, larghi di tutti i colori, frutto dell’eredità casalinga e della fantasia della mamma.

Le mutandine non c’erano, erano come la toga “pretexta” in Roma ne eravamo degni dopo la pubertà.

Vicino alla finestra fredda alle volte ghiacciata, c’era sempre il lavoro paziente e caldo di mamma con la sua macchina da cucire.

Eravamo tutti ragazzini fra i dieci e i quindici anni, non famosi come quelli della “via Pàl di Ferenc Molnàr”quel libro non c’era ancora, qui apparse nel 1947. 

La farina per fare il pane non c’era si comprava in “nero”, il sale non c’era, si sussurrava a mezza voce che tra i monti esistessero fonti di acqua salata.

Si commentava, sempre a mezza voce che in quel di Rosano, un anziano, era morto di “pelagra” per mancanza di sale nella polenta.

Era l’epoca della lucerna a petrolio o dell’acetilene a carburo vecchio ricordo delle miniere di carbone in Francia dove aveva lavorato il papà.

Non c’era il cesso, ma la folta macchia copriva i nostri usi e costumi. I pochi gabinetti esistenti erano con la famosa pedana “turca” primitivo abbozzo di “Cape Canaveral”

 La grande scoperta degli americani nel secolo diciottesimo il Water non c’era.

Chi aveva la stalla andava nella stalla chi non l’aveva andava dietro alle siepi o nel bosco a raccogliere margherite.

La vita dei piccoli proletari trascorreva con tozzi di pane secco tenuto in tasca e il sogno del latte fresco delle nostre compagne di resistenza “le capre”.

Queste erano vere Dame del nostro Esercito della Salvezza. Non conoscevo ancora il movimento americano, lo scoprii più tardi in Brasile.

Nella vita imparai da piccolo, l’esistenza delle lotte di classe, la divisione “in humanis” fra ricchi e poveri, mi resi cosciente che noi eravamo piccoli pastori “proletari”, ogni famiglia possedeva come,    patrimonio, solamente una capra.

La mia cara Zerbina, era bella, aveva un portamento nobile, le sue tette rigonfie, formavano un congiunto di una vera “trip-model” dell’epoca. Era adorata e coccolata da tutti, era lei che ci sfamava sera e mattina. Una bella scodella di latte e un pezzo di pane e il maggior problema economico del giorno era risolto.

Tra i proletariato Bismantovino c’era anche una santa vedova la “Zita”, era più ricca di quello che il compagno “Stalin” aveva prescritto “una sola vacca per gruppo famigliare”, la Zita ne aveva due, che si mescolavano con le nostre capre fra i nocciolai della macchia. La Zita era una donna che inventava il lavoro, vedova, aveva allevato tre figli con due vacchine magre e tre fazzoletti di terra seminati da ciottoli. All’alba divideva coi più poveri un litro di latte fresco o una scodella di ricotta e furtivamente lasciava questi doni sui davanzali ghiacciati delle finestre dei vicini più poveri che le tenevano chiuse per ripararsi dal freddo.

Anno 1944

Le raffiche e le picchiate dei caccia-bombardieri americani ci svegliarono bruscamente nei primi giorni di luglio. La guerra era arrivata anche alla Pietra.

Tre bombe inesplose, e quattro spezzoni incendiari ridussero a macerie le vecchie case dell’epoca del Duca di Bagnolo e parte dell’ospedale. Aniceto e la moglie, il vecchio Adamo abbracciato alle nipotine furono vittime del bombardamento

La guerra, la morte e il dolore pesarono come piombo sui piccoli pastori, questa era la Pietra del 1944.

Studiando più tardi Virgilio Nasone, ho conosciuto i nostri antenati, pure loro pastori nel Mantovano:

“Titire tu patulans sub tegmine fagi” come il “Tup” zufolo di corteccia verde dei noccioli, i pastorelli si sbizzarrivano costruendo artigianalmente i loro giocattoli.

Zufoli, balestre con il sambuco e pallottole di stoppa ben pressata fra i denti imbevuta di saliva, era molto di moda giocare alla guerra. Intanto si sentivano raffiche di parabello e tac-punf che rompevano il silenzio della montagna, era la lotta fra partigiani e tedeschi.

In località Fontanaguidia, dopo Rovina. C’era un campo di deportati di origine Araba li chiamavano “i Bengasin”, tre volte al giorno si prostravano supplicando il loro Dio Halla…

Torniamo ai pastorelli, ogni giorno prima di tornare a casa ispezionavamo le tette delle capre se erano abbastanza rigonfie di latte, per potere essere l’orgoglio della famiglia.

Il mese di luglio era il mese delle ciliege, era la nostra frutta preferita come i cornali, le bacche di biancospino “cagapoi”, quelle della rosa canina “paterlenghe”, i busìn, le nocciole, le perine, le mele selvatiche e le castagne.

Un giorno di sole di luglio, i birbantelli proletari decisero di attaccare un bastione rappresentante delle signorie locali i “Maggiori”.

Si in quel dei Maggiori esisteva una ciliegia selvatica, di rara bellezza, carica di fruttini così rossi che erano diventati paonazzi. L’assalto fu fulminante come un assalto a un Albero di Natale di Walt Disney.

Il ciliegio era una piazza di allegria, io ero una pagnotta non ero un arrampicatore, là sotto aspettavo la bontà dei compagni che mi rifornissero e il rifornimento arrivò in abbondanza.

Così era la guerra, la scorpacciata ebbe un effetto rapido, l’avidità e la fame erano così grandi che inghiottivamo le ciliegie intere, creando rivoluzioni intestinali drastiche, gli assaltanti non riuscivano a scendere dalla pianta in tempo e ricorrere alla macchia, abbassavano i cenci e imitando i propri ancestrali “ramopithecos”, sparavano in fretta vuotando i loro obici proletari.

Nilus magister in Acrense terra Brasiliae