Negli ultimi anni sempre più persone si mettono in cammino su antiche vie della fede. Per molti di loro non si tratta solo un'attività sportiva ma dell'occasione per una ricerca interiore. Quali sono le motivazioni che spingono questi moderni pellegrini, molti dei quali anche non credenti, ad affrontare il cammino? Di tutte queste cose ho parlato con Don Giordano Goccini, parroco di Novellara (RE) oltre che presidente dell'Associazione Via Matildica del Volto Santo, e con Paolo Giulietti, vescovo di Lucca.
La mia passione per l’Appennino tosco-emiliano mi ha portato, nel corso degli ultimi anni, ad avvicinarmi al mondo dei cammini. Nel 2021 avevo completato la Via Francesca della Sambuca, lo storico pellegrinaggio che unisce Bologna e Pistoia. Nel 2022 sono tornato sull’Appennino pistoiese per affrontare il Cammino di San Bartolomeo. Il percorso, circa 100 km tra Fiumalbo e Pistoia, attraversa diversi borghi storici che sono legati al culto dell’apostolo.
Quest’anno, partendo da Mantova ed arrivando a Lucca, ho percorso i 285 km della Via Matildica del Volto Santo. Si tratta di un cammino storico che attraversa i territori che appartennero ai Canossa.
Ho sempre affrontato i miei cammini con un taglio molto laico. Li ho vissuti come un’esperienza di turismo lento nella quale, come recita un proverbio spagnolo (“Caminar es atesorar”), raccoglievo dei piccoli “tesori” fatti dalle testimonianze, gli incontri, le persone, i luoghi e gli eventi che ho conosciuto strada facendo. Io credo, tornado al detto spagnolo, che ogni tesoro, per essere considerato tale, debba essere condiviso. Per questo motivo ho sempre cercato di raccontare, alla radio ma non solo, le mie esperienze di pellegrinaggio. I personaggi che ho incontrato sono molto diversi l’uno dall’altro ma tutti hanno una storia del territorio da raccontare.
Quest’anno, affrontando la Via Matildica del Volto Santo, per la prima volta il cammino mi ha offerto spunti, e incontri, che mi hanno guidato verso una riflessione più profonda. D’altra parte, con il termine “cammino” non intendiamo solo un movimento fatto con gli arti inferiori.
COSA CI SPINGE A METTERCI IN CAMMINO?
Quante sono le persone che, a partire da Santiago de Compostela fino al più piccolo dei pellegrinaggi, affrontano la loro esperienza ispirate da un bisogno spirituale/religioso? Sicuramente sono tante ma comunque una minoranza. Le statistiche ci dicono che, tra i pellegrini che partono per il Cammino di Santiago, meno del 50% sono quelli mossi da motivazioni puramente religiose. Eppure, c’è qualcosa che, prima o poi, spinge tante persone, credenti e no, a mettersi in cammino.
Può un cammino muovere i suoi passi dalle pagine di un libro? Io penso proprio di sì, per me è stato così. Quando ho ricevuto la mia credenziale della Via Matildica ho letto una frase che mi ha colpito e ha messo in moto la mia curiosità. Su frontespizio erano riportate le parole di Rabbi Nahum che, rivolgendosi ad alcuni studenti, diceva: “Vi dirò io le leggi del gioco della dama. Primo: non è permesso fare due passi alla volta. Secondo: è permesso solo andare avanti e non tornare indietro. Terzo: quando si è arrivati in alto, si può andare dove si vuole”.
È stato facile scoprire che quelle parole sul gioco della dama erano estratte da “Il cammino dell’uomo” di Martin Buber. Questo breve testo, tratto da una conferenza del 1947, è stato una ricchissima fonte di ispirazione per il prosieguo del mio cammino sulla Via Matildica. Lo scritto del filosofo chassidico mi ha dato l’ispirazione per “mettermi in cammino”.
IN CAMMINO CON LA PROPRIA DEBOLEZZA
Uno degli incontri più significativi che ho fatto è stato quello con Don Giordano Goccini, parroco di Novellara e presidente dell’Associazione Via Matildica del Volto Santo. Mi avevano dato il suo nome perché, nel 2015, aveva percorso questo cammino con un gruppo di ragazzi. Volevo conoscere un po’ di quella esperienza così mi sono fermato in canonica per una chiacchierata. Il cammino, secondo il sacerdote reggiano, non è un’impresa sportiva ma qualcosa di più. Nello sport siamo spinti a dare il massimo per primeggiare e superare i nostri limiti. L’obiettivo nello sport è arrivare primi. Nel cammino, al contrario, la dimensione atletica e sportiva è marginale. Come pellegrini siamo chiamati a confrontarci con le nostre debolezze e le nostre fragilità. Lo scopo però non è quello di superare i nostri limiti, come per lo sportivo, bensì quello di imparare ad accettarli ed a convivere con essi. In un cammino, a maggior ragione se è un’esperienza di gruppo, il fine non è arrivare per primi bensì arrivare insieme.
IL CAMMINO COME FORMA DI PREGHIERA
Solitamente io affronto i miei cammini in solitaria. Tuttavia, quando sono da solo, ad esempio su di un sentiero in mezzo ai boschi, non provo mai quel senso di solitudine che invece, a volte, ci assale quando siamo nelle nostre città, in mezzo a tanta gente.
Il monaco benedettino Anselm Grün, in un vecchio libro, sosteneva che la preghiera è innanzitutto silenzio e ricerca interiore. Da quando mi sono appassionato ai cammini ho notato una certa analogia con quella definizione del monaco tedesco. Ripensando alle mie esperienze ho concluso che, nell’arco dell’anno, i giorni che passo in cammino sono gli unici nei quali riesco a staccarmi dalle tante distrazioni quotidiane (il lavoro, gli impegni extra lavorativi, la famiglia, gli impegni di mia figlia…). Mi sembrava di aver capito: il cammino è l’unico momento in cui riesco a trovare il tempo per “stare con me stesso”. Ma invece…
“Non è vero che non abbiamo tempo per stare con noi” – mi ha spiegato Don Giordano Goccini – “il fatto è che abbiamo paura di stare con noi. Il vero dramma dell’uomo è che noi siamo perennemente fuggiaschi dal nostro io perché abbiamo paura di quello che potremmo trovare dentro di noi. Il cammino vero, quello interiore, va fatto con prudenza, con attenzione perché è pieno di asperità, di pericoli. Siamo dei fuggiaschi non tanto per cattiva volontà quanto perché fiutiamo il pericolo dentro di noi”.
Per il parroco di Novellara il cammino fisico ci fornisce un ambiente favorevole per la ricerca interiore. E in questo, dice lui, si inserisce anche il tema di Dio, ovvero di quella caricatura di Dio che ci hanno messo in testa fin da bambini. Il mio incontro con Don Giordano è caduto proprio nel giorno della finalissima Inter – Manchester City. E lui è pure un interista: il Don intendo non Dio. “Prendi ad esempio questa partita” – mi ha suggerito il sacerdote – “Io non vorrei essere Dio la sera della finale di Champions. Intanto ci sono più segni religiosi in uno stadio che dentro ad una cattedrale. E poi la sera della finale si eleva al cielo una preghiera accoratissima ma ahimè terribile per Dio: da una parte quelli che voglio far vincere questi, dall’altra quelli che voglio far vincere gli avversari. E Dio sa che dovrà scontentarli, perché nella finale non può nemmeno sperare in un pareggio”.
Don Giordano punta il dito contro questa “preghiera di scambio” e dice “quel Dio marionetta che ci portiamo dentro è il più grande nemico della nostra fede. Purtroppo, tante volte lo troviamo anche in certe preghiere, in certe manifestazioni pubbliche, ogni tanto troviamo anche sulla bocca dei ministri qualche accenno ad un Dio che terrebbe i fili di tutto il mondo. A Lui ci rivolgiamo quando abbiamo qualcosa che non riusciamo a sbrogliare e allora chiediamo a Lui di farlo al posto nostro. Bonhoeffer lo chiamava il Dio tappabuchi”
“Questo ovviamente” – conclude Don Giordano Goccini – “non toglie la serietà con cui tutti i poveri della terra, tutti gli afflitti elevano un loro grido al cielo. È invece la caricatura di un Dio aggiusta tutto che dobbiamo combattere. Alla luce di queste parole appare evidente che abbiamo bisogno di purificare con molto silenzio questa ricerca di Dio. E il cammino è un ottimo ambiente per praticare questo silenzio.”
I PELLEGRINAGGI NELLA STORIA: DALL’OGGETTO AL SOGGETTO
Nel Medioevo i pellegrinaggi erano orientati ad un oggetto sacro in una dimensione puramente ecclesiale. Oggi assistiamo alla rinascita dei pellegrinaggi ma in una forma molto diversa. I pellegrini di oggi non vivono la loro esperienza in relazione ad un oggetto bensì in funzione del “soggetto”. Oggi il Cammino viene vissuto come opportunità per ritrovare degli spazi di silenzio, di introversione, di cambiamento finalizzate alla ricerca di dimensioni nuove della vita. Il pellegrinaggio moderno dal punto di vista antropologico, per credenti e non credenti, è una grande opportunità di stare con sé stessi di intravedere possibilità nuove e diverse per la propria vita.
Queste considerazioni sono scaturite dalla chiacchierata che, al mio arrivo a Lucca, ho avuto con il Vescovo della città toscana. Secondo Paolo Giulietti “c’è un legame tra interiorità/spiritualità e cammino. Poi per alcuni diventa occasione di preghiera di celebrazione di liturgia. Per altri rimanda una sorta di conversione interiore senza riferimenti alla trascendenza. Oggi noi siamo gli uomini del frastuono, della comunicazione pervasiva e dei ritmi intensi e forsennati. Abbiamo più che mai bisogno di occasioni in cui recuperare il silenzio, l’interiorità, l’incontro con l’altro che non sia funzionale bensì gratuito, recuperare il tempo di guardare alla vita e ritrovare noi stessi. Questo è il motivo per cui oggi tante persone si mettono in cammino su antiche vie della fede.”
IL CAMMINO COME ESPERIENZA DI VITA ORIENTATA
Prima di partire per la Via Matildica avevo letto, grazie al sito della Confraternita di San Jacopo, un breve scritto del Vescovo Giulietti. In quel testo parlava del cammino come “esperienza di vita orientata”. Quando sono arrivato a Lucca gli ho chiesto di spiegarmi meglio quel concetto.
Ciò che distingue un cammino da un semplice trekking è l’esistenza di una meta. I cammini hanno sempre una meta da raggiungere. Per gli antichi pellegrinaggi della fede si trattava sempre di una meta religiosa. “Ebbene, tutto quello che si fa in cammino è in rapporto con la meta.” – mi ha spiegato il Vescovo di Lucca – “Si vive per arrivare lì. Lo stile di vita, quello che si porta, come si organizza la giornata… tutte queste cose sono orientate oggettivamente alla meta. Ma” – ha continuato Paolo Giulietti – “c’è anche un orientamento soggettivo. In cammino si riscopre che la vita per essere vissuta ha bisogno di una ragione, di un senso”.
Esiste allora un’analogia con la vita. Quando siamo in cammino ogni strada è giusta o sbagliata in relazione alla meta. La strada giusta è quella che ci avvicina alla nostra destinazione. Solo se esiste una meta si può discernere tra cosa è giusto e cosa è sbagliato in viaggio. Anche la vita è fatta così, essa infatti ha una meta per tutti che è la morte. Questo anche in relazione a ciò che ciascuno di noi immagina che ci sia dopo la morte. Dunque, riscoprire la meta ci aiuta a conferire un senso a tutto il viaggio. L’unico metro di giudizio su ciò che facciamo, se non avessimo una meta, sarebbe il piacere che quella cosa produce nel momento in cui si manifesta.
“Senza una meta l’uomo è smarrito. E il disorientamento” – commenta il Vescovo – “non ci rende contenti, l’uomo disorientato è insoddisfatto, diviso, frammentato e incapace di essere in pace con sé stesso”.
Al contrario, l’uomo può essere in armonia quando è unificato, ovvero quando tutte le sue dimensioni sono unificate da qualcosa, da una meta o da un ideale. “In questo senso” – conclude il Vescovo di Lucca – “il pellegrinaggio è una grande profezia che ci invita a riscoprire l’esigenza, e ritrovare le modalità, per unificare la nostra vita dandole una direzione”.
IL SENSO E’ NEL CAMMINO STESSO
Ho sempre faticato ad accettare su di me l’appellativo di “pellegrino”. Mi sembrava una parola impegnativa. La interpretavo come un “moto a luogo”, il pellegrino è colui che va in pellegrinaggio verso un luogo sacro. Però non tutti ci riconosciamo nelle stesse mete. Il punto di arrivo non è lo stesso per tutti. Eppure, molte persone, sia credenti che non credenti, sentono sempre più spesso il bisogno di mettersi in cammino.
Riflettendo su questi temi, nel corso del tempo, sono arrivato a ripensare il concetto passando da un sostantivo (pellegrino) ad un verbo: peregrinare. Forse è proprio il cammino stesso, e non il punto di arrivo, ad essere una fonte di significato per noi pellegrini. Una cosa molto simile a quello che diceva anche Tiziano Terzani: “il senso della ricerca sta nel cammino fatto e non nella meta; il fine del viaggiare è il viaggiare stesso e non l’arrivare.”
La mia esperienza sulla Via Matildica, come ho già detto in precedenza, è stata segnata dalla lettura, avvenuta prima della partenza, del libro “Il cammino dell’uomo”. Il testo di Martin Buber si conclude con la storia di Rabbi Eisik, figlio di Rabbi Jekel di Cracovia. Egli ricevette in sogno l’ordine di recarsi a Praga per cercare un tesoro sotto al ponte del palazzo reale. Il sogno si ripeté per tre volte. Alla fine, Eisik si mise in cammino e raggiunse Praga a piedi. Arrivato in città scoprì che il ponte era sorvegliato dalle guardie così non ebbe il coraggio di avvicinarsi. Il suo atteggiamento fu notato però dal capitano dei soldati che, dopo essersi avvicinato, lo interrogò. Eisik raccontò il suo sogno e il capitano lo derise. “E tu, poveraccio, per dar retta a un sogno sei venuto fin qui a piedi? “ – gli disse il capo delle guardie – ”Ah, ah, ah! Stai fresco a fidarti dei sogni! Allora anch’io avrei dovuto mettermi in cammino per obbedire a un sogno e andare fino a Cracovia, in casa di un ebreo, un certo Eisik, figlio di Jekel, per cercare un tesoro sotto la stufa!”. E così dicendo continuò a deriderlo. Eisik lo salutò, tornò a casa sua a Cracovia dove trovò e dissotterrò il tesoro con il quale costruì la sinagoga intitolata “Scuola di Reb Eisik, figlio di Reb Jekel”.
La morale di questo racconto chassidico è la seguente: “c’è qualcosa che tu non puoi trovare in alcuna parte del mondo, eppure esiste un luogo in cui la puoi trovare”. Quella cosa “che si può trovare in un unico luogo al mondo, è un grande tesoro, lo si può chiamare il compimento dell’esistenza. E il luogo in cui si trova questo tesoro è il luogo in cui ci si trova”.
Potrebbe sembrare facile ed immediato: il tesoro sta lì, nel posto dove siamo noi.
Ma per trovare quel tesoro, che è nascosto nel luogo in cui ci si trova, è necessario mettersi in cammino.
Andrea Piazza
Il presente articolo è stato realizzato dalle interviste raccolte sulla Via Matildica del Volto Santo. Tutto il racconto del mio cammino da Mantova a Lucca va in onda, via Web o via App, su www.mikroradio.it, dal 12 ottobre 2023, ogni giovedì alle 14:30.
Articolo tratto da https://lavocedellamontagna.it/