Con la conclusione degli Stati generali sulla natalità, un evento di grande rilevanza, si è posto l'accento sulla crisi demografica che affligge il nostro Paese e non di meno il nostro Appennino. È ormai evidente che la diminuzione delle nascite è il risultato di una molteplicità di problemi complessi che richiedono un approccio multidimensionale.
Affrontare efficacemente questa situazione richiede un ampio spettro di proposte e soluzioni. Inizieremo questa indagine concentrandoci sugli aspetti psicologici, avendo la preziosa opportunità di parlare con la dottoressa Erika Gebennini, psicologa e psicoterapeuta di Castelnovo ne' Monti. La sua esperienza e conoscenza ci aiuteranno a comprendere meglio le dinamiche psicologiche legate alla crisi della natalità.
Dottoressa quando si parla di calo delle nascite si pensa sempre a mancanza di welfare o sostegni economici ma c’è sicuramente anche una componente sociale, in che modo l’approccio alla vita delle nuove generazioni differisce da quello delle generazioni passate? Quali sono i principali cambiamenti di mentalità e atteggiamenti che contribuiscono al calo delle nascite?
Credo che ci sia un’enorme differenza tra il modo di vivere delle nuove generazioni rispetto a quelle del passato. Un tempo la natura del sistema familiare era differente: i figli si avevano in giovane età e presto riuscivano a raggiungere un livello di autonomia e indipendenza tale da poter spiccare il volo verso una progettualità propria. Da un po’ di anni a questa parte, al contrario, si assiste a un vero e proprio "cambio di rotta", il quale ha comportato che la transizione verso quella che viene definita età adulta divenisse sempre più flessibile, elastica e duratura. La psicologa Eugenia Scabini parla, a questo proposito, di "famiglia lunga": all’interno del ciclo di vita di questo sistema familiare vi è la diffusione di una nuova fase evolutiva, quella del giovane adulto, una condizione che va dai 18 ai 30 anni circa. Il passaggio all’età adulta avviene, quindi, attraverso una transizione che diventa inevitabilmente più lenta e complessa. Questo, allo stesso tempo, comporta il fatto che i figli stiano a casa con i genitori fino al raggiungimento dell’età adulta, spesso studiando o comunque non trovandosi a disposizione mezzi e strumenti fondamentali per il raggiungimento di un’autonomia funzionale (non solo economica, ma anche psicologica e mentale). Ciò che ne consegue è che l’intraprendenza di una propria progettualità diventi un miraggio sempre più lontano e non di facile raggiungimento.
Il presidente del Censis Giuseppe De Rita ha posto l’accento anche sulle cause più antropologiche: "E’ un problema di dittatura dell’io. Una società che non sa più dire 'noi' non fa figli." E’ necessario ricostruire un’idea di comunità?
Non sono d’accordo. Io non la vedo affatto come una questione di egoismo. Credo che decidere di fare figli sia un grande atto d’amore e responsabilità ma anche scegliere il contrario, alle volte, mette in campo componenti preziose che andrebbero rispettate e tutelate. Sono una donna di 31 anni e sono una giovane psicologa; non so se un domani deciderò o meno di avere dei figli. Al momento mi piacerebbe solo avere la libertà di mantenermi una porta aperta per il futuro e la possibilità di poter rimandare la scelta in un momento della mia vita che percepisco come più funzionale. Invece, sempre più spesso sia come donna sia come professionista, mi trovo a dover fare i conti con l’imporsi di etichette e preconcetti socialmente radicati, che lasciano poco spazio alla volontà del singolo. Una donna può percepirsi come figlia, compagna, professionista, ma non come madre. Può aver paura di non essere all’altezza di un ruolo così importante o, più semplicemente, può non avere come priorità il fatto di diventare madre. Perché questo deve essere considerato un fattore di egoismo? Ben venga la costruzione di un’idea di comunità nuova, ma credo che questa debba partire dal rispetto dei bisogni e delle scelte dei singoli. L’identità personale deve integrarsi alla componente sociale, non essere totalmente mascherata da un 'Io collettivo'.
Come potrebbero cambiare le dinamiche sociali e la struttura sociale in un contesto in cui il numero di nascite è significativamente ridotto?
Il cambiamento non deve necessariamente intendersi come negativo. Credo sia più importante che le persone si relazionino tra loro in una società che risulta nuova e differente rispetto a quella dei tempi passati, senza inseguire prototipi che potrebbero risultare eccessivamente monchi e rigidi. Innanzitutto, ritengo sia fondamentale sostenere i giovani e valorizzare i bisogni di donne e uomini che, nel momento presente, risultano bloccati in un labirinto fatto di precarietà, incertezza e scarso sostegno collettivo. All’interno di questo quadro, dalla cornice poco definita, penso che un giovane possa essere libero di crescere come uomo o donna, di dedicarsi ai propri obiettivi lavorativi o altro senza, per forza, prendere parte attiva nel contribuire ad innalzare il numero delle nascite. Ed ecco che compaiono le famose etichette: "eterni Peter Pan", "irresponsabili e senza valori", "bamboccioni". In questo senso, dove si è spostata la bilancia dell’egoismo? Il peso è maggiore dalla parte dei giovani individui dal futuro incerto o da quella della collettività che grida riconoscimento e rispetto in nome di preconcetti rigidi e antichi?
Anche in Appennino si fanno sempre meno figli, secondo lei le cause sono le stesse di quelle a livello nazionale o qui è un microcosmo con regole tutte sue?
Mi fa un po’ sorridere quando si parla del nostro Appenino come di un mondo a parte, quasi come fosse un posto fantastico o appartenente al mondo delle fiabe. Penso, invece, che l’Appenino sia reale e, in questo suo essere estremamente vero e concreto, scopra (oltre ad innumerevoli meraviglie) anche una faccia più dura e cruda rappresentata, in larga misura, dallo spopolamento che lo contraddistingue. Le persone, e in modo particolare i giovani, si spostano per lavoro, per una quotidianità maggiormente comoda, per cercare opportunità di vita più proficue. La storia di chi resta è una storia che narra di resilienza, di coraggio, di amore incondizionato verso il proprio territorio.Entro questa cornice pensiamo a chi, oltre a scegliere di restare, decide di diventare protagonista attivo di progetti di vita più ampi, come quello di costruire una famiglia. È in casi come questi che ritengo che l’Appennino mostri l’ampio riflesso delle problematiche sociali analizzate entro un contesto più ampio. Per tutto questo, quindi, mi sento di poter affermare che l’egoismo del singolo abbia poco a che vedere con quanto espresso finora.
Io non voglio certo saperne di più rispetto a quanti, per mestiere e professione, si occupano di fenomeni sociali, ma da semplice osservatore, con sulle spalle un po’ di anni in più della giovane psicologa, stento francamente a riconoscermi nel concetto o assunto che oggi ci si trovi “a dover fare i conti con l’imporsi di etichette e preconcetti socialmente radicati, che lasciano poco spazio alla volontà del singolo”.
Ciò poteva eventualmente succedere una volta, quando vigeva un modello di società abbastanza “stringente”, nel senso che, pur non imponendo ovviamente ai singoli i rispettivi comportamenti, riusciva casomai ad orientarli, dal momento che poteva non essere ben visto chi usciva dal modello (poi quel modello è stato ricusato, in nome di una “libertà” fortemente rivendicata, specie dal mondo femminile)
A me sembra che oggigiorno, e da non pochi anni a questa parte, ogni donna abbia la porta aperta per decidere sul proprio futuro, riguardo alla carriera e alla maternità, e se non si può parlare di egoismo, arriverei comunque a dire che ha grande spazio l’individualismo, e c’è forse da chiedersi, vista l’insoddisfazione che si nota in giro, se sia da rivalutare in qualche misura il modello dei tempi andati.
P.B. 31.05.2023
P.B.
Se non ho frainteso il ragionamento di P.B., egli si chiede se non sia da rivalutare il modello dei tempi che furono, modello che prevedeva la sostanziale impossibilità per la donna di decidere il proprio futuro, rimanendo vincolata ai doveri famigliari e senza possibilità di intraprendere un lavoro ed una carriera. Per quanto mi riguarda la risposta è decisamente no, questo modello non è assolutamente da rivalutare. Anzi, mi permetto di aggiungere che andrebbe casomai biasimato da chiunque si dichiari amante della libertà.
Andrea
Caro P.B.
Il tuo costante e continuo riferimento ai ” tempi passati ” per ogni e qualsiasi argomento in testata, mi fa pensare che forse queste tue nostalgie siano di fatto una costante.
Mi spiego meglio.
Non credo che si possano dibattere temi di forte attualità solo con dietrologismi che peraltro estrapolati appunto dai tempi passati davvero poco hanno a che fare con la ns attualità.
Credo sia particolarmente azzardato fare parallelismi con tempi che più non sono tali.
Ci si deve misurare con argomenti e concetti ” actual ” più attinenti appunto alla attuale situazione
La denatalità a cui si fa riferimento è un grave problema soprattutto in Italia.
I decisori politici come tu spesso li definisci, non vedono più in là della punta del loro naso, troppo e solo attenti a fare campagna elettorale per avere il tempo e l’ attenzione per accorgersi di questi fenomeni molto pericolosi e molto italiani
I ns cugini d’ oltralpe ad esempio, risentono davvero minimamente di questo fenomeno.
I soliti definiti ” decisori politici ” dovrebbero studiare e documentarsi per capire perché appunto in Francia, nazione cugina molto vicina a noi, le cose vanno in modo del tutto diverso.
Forse le politiche del welfare, decisamente più attente ai bisogni delle famiglie, magari sono già un motivo per cui la Francia soffre decisamente meno dell’ Italia dei problemi legati alla denatalità.
C’ è tanto di cui parlare senza arroccarsi su posizioni che ritengo ormai anacronistiche.
Saluti Vittorio
Caro Vittorio,
può essere che il mio “costante e continuo riferimento ai tempi passati” sia frutto di una sorta di mania, ma al di là delle mie eventuali fissazioni, vi sono celebri aforismi in argomento, attribuiti ad altrettanto illustri figure dei nostri tempi, del tipo “un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente”, frasi o massime che mi sembrano piuttosto eloquenti e significative, ma in ogni caso, citazioni a parte, a me sembra che sia oltremodo importante l’avere termini di raffronto, che in buona sostanza sono gli antefatti, ossia i nostri precedenti, coi quali potersi se del caso confrontare.
La dietrologia può apparire anche pedante, e anacronistica, ma talvolta riesce pure ad insegnarci qualcosa di non secondario, quantomeno per evitare errori già commessi, tanto da avere dunque a che fare con la nostra attualità, e venendo al tema denatalità credo che una delle ragioni, non certo l’unica, che l’ha determinata, possa essere la intervenuta crisi della famiglia, guardando almeno ai fatti di casa nostra, posto che la famiglia è stata la prima forma di aiuto, sostegno, ed assistenza, nella crescita dei figli, e si sono probabilmente sbagliati quanti pensavano di poterla sostituire in tale funzione.
Dal momento che la denatalità è sicuramente un grave problema per il Belpaese, posto che lo espone al rischio di veder in qualche misura compromesso il proprio futuro, venendo a mancare il ricambio e avvicendamento generazionale, a me pare che, memori giustappunto di un’epoca in cui detto fenomeno non esisteva, si potrebbe innanzitutto cercare di ridar valore alla “istituzione” famiglia, puntando di nuovo sul suo ruolo all’interno della società, il che può nascere da decisori politici che abbiano una determinata idea o visione del Paese (questo è perlomeno il mio opinabile punto di vista).
Ricambio con piacere i saluti.
P.B. 31.05.2023
P.B.
Nel mio precedente commento ho fatto cenno al ridar valore alla “istituzione” famiglia, un concetto nel cui quadro includerei pure una maggiore attenzione e gratificazione verso il lavoro domestico, anche attraverso forme di supporto economico a favore delle madri che, per necessità o scelta, avessero a dedicarsi interamente alla famiglia, onde seguire più da vicino il crescere dei figli, oppure accudire congiunti non più autosufficienti, e rinunciando dunque ad avere una diversa occupazione fuori dalle mura di casa.
Salvo improbabili errori di memoria, negli anni Ottanta del secolo scorso, in un partito della Prima Repubblica prese vita l’idea di un buono scuola, e di un buono sanità, attribuibile alle famiglie, le quali avrebbero potuto spenderlo con doppia opzione, rivolgendosi cioè al servizio pubblico oppure privato, un’idea cui andava dato seguito e corpo in maniera attenta ed equilibrata, stante la delicatezza della materia, ma quel progetto rimase comunque “al palo”, causa le vicende politiche poi intervenute.
Sulla falsariga di quell’incompiuto progetto, potrebbe concepirsi un buono famiglia, modulandone l’entità in base al numero dei figli, o dei congiunti non autosufficienti, o criteri similari, e sarà la donna a decidere se avvalersene, ove si sentisse realizzata anche “rimanendo a casa”, e dunque nessun vincolo o imposizione, o impossibilità di intraprendere una carriera, come scrive Andrea, ma, più semplicemente, l’offerta di una alternativa (non mi pronuncio sulle iniziative di Oltralpe perché non ne conosco i dettagli).
Da ultimo, l’indubbio e non piccolo impegno che la genitorialità comporta potrebbe favorire la denatalità, tra chi ad es. non se la sente di accompagnare i figli durante l’adolescenza, e nella transizione verso l’età adulta, quando cercano di mettersi alla prova e di trovare la propria strada, anche con qualche azzardo ed iperbole, ed eventuali conseguenti “sconfitte” che possono tradursi in fragili insicurezze, e qui può giovare una comunità salda ed accogliente dove poter trovare la rasserenante calma della normalità.
P.B. 01.06.2023
P.B.