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Le case cantoniere riferimenti nel paesaggio dell’Appennino

I viandanti della vita nel romanzo di Silvia Tedeschi

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Le case cantoniere erano riferimenti iconici nel paesaggio dell’Appennino: le case colorate si trovavano a ridosso della strada, marcando il percorso, a volte inerpicate in punti quasi inimmaginabili, a ridosso di una pendenza, dopo un tornante o affacciate su un precipizio. Ogni gita in auto era scandita dagli incontri con queste case che ricordavano i chilometri percorsi e quelli che mancavano alla meta. 

Cantoniera abbandonata sulla strada per il Passo del Cerreto

Nel corso degli anni Ottanta questi edifici, sempre colorati di rosso pompeiano e che si affacciavano su un cantone di strada, un tratto di circa tre o quattro chilometri, furono dismessi a causa dei costi troppo alti. Così le cantoniere si trasformarono da luoghi di conservazione a luoghi di abbandono, coi mattoni rossi sbiaditi e sgretolati e la vegetazione circostante che riprende il pieno controllo, ricoprendo mura, tetti e rimesse. 

La casa cantoniera del protagonista del romanzo breve d’esordio di Silvia Tedeschi ‘Una manciata di mattoni rossi e di pallide parole’, vincitore dell’edizione 2021 del Premio Letterario Nazionale Silvio D’Arzo, è invece ancora attiva e vitale. E questo grazie a Ermes, o Ermete, che ha deciso, coraggiosamente, che la vita d’ufficio lo stava ricoprendo di polvere senza ricoprirlo di un barlume di soddisfazione personale e che non cede alle considerazioni del capufficio, il quale, cercando di fargli cambiare idea, gli fa presente che la sua richiesta di ricoprire il ruolo di cantoniere rappresenta "un assurdo declassamento da colletto bianco reggimatita a tuta blu manovrabadile”. Ma Ermes ha abbastanza intuito da comprendere che tra manovrare una matita e un badile può non esserci differenza se il risultato è un lavoro appagante, anche perché lui è “irresistibilmente e incoffessabilmente attratto da angoli di mondo remoti, dimenticati e sospesi”.

Vecchia cantoniera sotto la neve, foto di Simona Sentieri

Il neo cantoniere, che porta il nome del dio greco messaggero degli dei e divinità dei viaggi, sa che il fascino della casa rossa è l’essere luogo di passaggio, luogo di incontro di viaggiatori e, quindi, luogo di racconti e di confidenze, luogo del viaggiare stando fermi. E’ così che l’autrice costruisce una cornice, quello della casa cantoniera e del suo abitante, appunto, che raccoglie e unisce le vicende di viandanti diversi per età, esperienze e condizione. Il percorso di questi viandanti è però anche quello della vita: ogni racconto riflette una stagione dell’anno fino alla “stagione esuberante” della viaggiatrice più significativa, che è anche quella che sceglie consapevolmente la cantoniera come meta, “come se avesse programmato da gran tempo quella sosta e quella visita”.

Diversi visitatori accolti da Ermes sono personaggi che rappresentano spicchi di umanità che si sono trovati, nell’ultimo ventennio del ventesimo secolo, ad affrontare cambiamenti memorabili, proprio come accadde alle case cantoniere vere e proprie. Specialmente le donne che si ritrovano sotto lo sguardo di Ermes riflettono l’evoluzione del femminile nella società italiana. 

Queste donne sono ora bambine o vecchie sagge, ora moderni esempi di femminilità che corrono senza sosta verso una meta imprecisata, ma che si intuisce non darà appagamento, in un continuo stato di insoddisfazione: donne che “nascondono la loro confusione dietro i colori sgargianti della testa e dei vestiti”.

L’altro esempio di umanità che riflette un cambiamento epocale dinanzi alla modernità è un sacerdote cattolico, assistente spirituale dei viandanti della vita, “forgiato in seminario secondo i canoni secolari di una certa Chiesa” e uscito “nel mondo a metterli in pratica in un’altra Chiesa, rinnovata di botto dal Concilio”. Don Guido è “un Guido che ha smarrito la direzione” ma non la fede, un pastore che si confessa al “cantoniere pagano”, “sanguinando in un deserto in cui incontrare un uomo che mi chiami per nome e mi salvi, mi indichi la via, mi doni la pace, invece di bussare alla canonica per chiederla a me”.

L’unica volta in cui Ermes comprende che il viandante che gli sta davanti non potrà offrirgli nessuna parola carica di contenuto è quando si trova ad affrontare l’aridità umana in un giorno d’inverno, quando “l’alito spettrale” del vento ha “ingaggiato una gara spasmodica con la roccia delle montagne, per aggiudicarsi il primato della durezza”. Il nuovo viandante, “dalla cui testa sembrava si alzasse il fumo che usciva dal camino dei vicini”, esala vapore dal capo nel gelo invernale non solo per la temperatura, ma soprattutto perché è un esemplare di quell’umanità sostenuta “solo da una forsennata ed egoistica volontà del fare”, che distrugge tutto quanto incontra in un fuoco di ira che diventa l’unico sentimento che persone come il commendatore Mazzoni riescono a provare.

L’intreccio delle storie nel passare del tempo si riflette nell’intreccio delle parole usate dall’autrice: parole ricche, di un lessico lussureggiante ed “esuberante”, parole che si svolgono come i tornanti di una via di montagna, che richiedono cura e attenzione da parte del lettore viaggiatore e che ripagano con l’aprirsi di molteplici panorami di significato.  

Così si arricchisce e si compie, per noi lettori, il dono prezioso che Ermes farà alla fine del racconto, rendendoci più e più consapevoli che la vita è costellata di incontri così come le case cantoniere si intervallavano lungo la via.