Il progetto Life Ursus, che ha finanziato la reintroduzione dell'orso bruno nei boschi dell'Adamello-Brenta alla fine degli anni '90, è oggetto di grande dibattito in Trentino. Nonostante l'obiettivo di creare una popolazione stabile a quel tempo minacciata di estinzione, il numero di esemplari è stato abbondantemente superato e gli animali si sono concentrati principalmente nel Trentino occidentale, invece di sparpagliarsi sull'arco alpino come previsto. Dopo la morte del runner Andrea Papi, ucciso dall'orsa JJ4 nei boschi sopra Caldes, il piano di conservazione viene messo in discussione da più parti. Abbiamo intervistato il presidente del Parco Nazionale Tosco Emiliano Fausto Giovanelli per capire cosa non ha funzionato del progetto Life Ursus, l'importanza dei piani di conservazione, come affrontare la convivenza con il lupo e le sfide principali nella gestione e conservazione della fauna selvatica del territorio.
Presidente cosa non ha funzionato del progetto Life Ursus?
Superato il momento della tragedia e dell'emozione, che tuttavia rimane, c'è una maggiore consapevolezza del fatto che quanto accaduto è gravissimo ma non può essere risolto semplicemente abbattendo l'orsa. È evidente che tutto il progetto Life Ursus, che ha avuto un iniziale successo, va rivalutato e attrezzato per prevenire ed evitare ulteriori eventi di questo tipo. I progetti di convivenza fra uomo e ambiente o uomo e animale non sono meccanicamente gestibili come un processo industriale e quindi il rischio che sfuggano di mano in una direzione o nell'altra c'è sempre.Vanno monitorati e vigilati continuamente i dati,i fatti,i comportamenti animali e anche le interazioni e i comportamenti umani, compresi gli aspetti psicologici e sociali. Il progetto Ursus non era insensato, ma probabilmente a un certo punto aveva bisogno di essere maggiormente implementato e corretto. La gestione di un grande carnivoro in un territorio turistico come il Trentino è una sfida molto alta e richiede l'applicazione di esperti competenti e un continuo aggiornamento. La natura non può “fare il suo corso” semplicemente; nelle aree abitate bisogna continuamente ricercare un equilibrio tra l'uomo e l'ambiente in cui vivono gli animali.
Perché sono importanti i piani di conservazione?
I piani di conservazione della natura sono assolutamente importanti, anche quelli di specie problematiche come possono essere gli orsi o i lupi. Sappiamo tutti ormai che la biodiversità è pesantemente in crisi e non è semplicemente patrimonio della natura o necessità degli animali in quanto tali, ma è patrimonio e bisogno nostro essenziale per la nostra vita; la sua tutela deve essere fatta di tante azioni, tra cui anche quelle della conservazione delle specie a rischio . Ogni perdita è gravissima, sia che si tratti di un piccolissimo insetto o addirittura di un fungo o di una spora, sia di un animale ben visibile, noto all'immaginario di tutti, come può essere la tigre o la balena o l'orso. I piani di conservazione oggi sono importanti e sono tutti quanti, in verità, piani di convivenza tra le attività umane, la ricchezza enorme della natura, il grande disegno del creato -come lo chiama la Laudato si’ - che è un tessuto di relazioni tra la vita umana, le specie animali e vegetali e anche tra queste e il mondo inanimato. Oggi il tema della conservazione non è più soltanto cosa degli ecologisti o degli addetti ai lavori o di istituzioni specializzate, è un tema e una sfida di carattere generale importante per consentire la continuità qualità della vita sulla terra. La specie umana, raggiungendo gli 8 miliardi di persone ha dimostrato di sapere convivere con l'ambiente naturale ma a questa intelligenza e sviluppo di conoscenza deve corrispondere anche una responsabilità di salvaguardare il patrimonio su cui si basa la vita nella biosfera, in questa sottile fascia alta pochi chilometri attorno al globo terrestre che è l'unica parte dell'immenso universo in cui sappiamo esiste la vita e la possibilità della vita. I piani di conservazione, quindi, non sono concessioni agli animali, alle piante, alla vita vegetale o cellulare ma sono valore per gli esseri umani cui pure sono destinati; sempre richiedono incremento di conoscenza capacità operativa e di comportamento.
Quali sono le sfide principali che il Parco Nazionale Tosco Emiliano deve affrontare nella gestione e conservazione della fauna selvatica del territorio?
Il Parco nazionale dell'Appennino Tosco Emiliano affrontala da anni sfida della gestione del naturale ritorno del lupo sui territori, in termini di convivenza con le attività tradizionali come la pastorizia e l'allevamento bovino e salvaguardia genetica e argini all ibridazione coi canidi. Grazie all'aumento del livello di consapevolezza e delle buone pratiche di gestione, le predazioni sono diminuite all'interno del Parco, soprattutto laddove ci sono attività come la pastorizia con i cani da guardiania. Fuori dal Parco, la questione è più complicata perché è più lento e difficile l'adattamento e non c'è nessuna tradizione o percezione del carattere problematico del rapporto con la presenza del lupo. Oltre al lupo, però, soprattutto ultimamente, il nostro Parco è impegnato come capofila di altri parchi, e diverse università (come Roma tre o come Tor Vergata) dei sul tema degli impollinatori. Non si tratta soltanto delle api che fanno il miele, ma di tutti gli insetti che presiedono l'impollinazione e che con il cambiamento climatico hanno un po’ perso il calendario e si trovano in difficoltà a fare il loro mestiere che è essenziale per la vita sulla terra. Questo progetto, al momento il più avanzato, prevede interventi di natura pratica come la costruzione di stazioni per gli impollinatori per rendere più agevole il loro lavoro anche in presenza di sbalzi climatici. Un terzo punto riguarda le acque e alcuni abitanti delle nostre acque, i gamberi di fiume, che rischiano di essere completamente cancellati dalla presenza di specie aliene. Il tema delle specie aliene tocca l'intero pianeta. Si parla oggi di minestrone ecologico: il trasporto di spore e di semi ma anche di specie animali da un continente all'altro ha fatto saltare le nicchie ecologiche in cui gli ecosistemi costruivano loro equilibrio. Per quanto riguarda le nostre acque e i nostri gamberi di fiume il progetto mira a monitorare, valutare e salvaguardare quanto è possibile. Alla stessa stregua si portano avanti progetti come il Life che riguarda l'eremita, un insetto che si ciba di alberi in decomposizione che in qualche modo è fattore e indicatore di naturalità di un ecosistema boschivo. Il Parco è ultimamente molto impegnato in progetti di ricerca sulla genetica degli alberi, sulla loro capacità di adattarsi al cambiamento climatico nel nostro Appennino. Abbiamo una strategia piuttosto complessa per miglioramento della gestione, dell'attenzione e della cura dei boschi, che oscillano tra l’ abbandono da un lato e il semplice taglio per legna da ardere da un altro. Questi progetti comunicano un impegno al quale l'opinione pubblica è complessivamente attenta, anche se ci sono sempre interessi diversi in campo.
Come far funzionare la convivenza?
Quello che bisogna accettare dopo un evento drammatico come quello del Trentino è il fatto che c'è sempre un limite nel rapporto tra uomo e natura; un qualcosa che non può essere sottoposto a previsione. C'è sempre un margine di rischio nel rapporto con la natura, quando si va per mare a fare un bagno, quando si va su una montagna per un'escursione,e anche quando si fa una normale passeggiata nel bosco dove si possono le vipere e una parte dei funghi sono velenosi. Il rapporto con la natura deve essere un rapporto fatto di prudenza, di rispetto e naturalmente, in qualche caso anche di limitazione. È altresì evidente che in alcuni casi i fattori naturali vanno messi per quanto possibile sotto sotto limitazione e controllo. Penso al numero dei cinghiali che circolano nel nostro paese che è assolutamente abnorme o al numero degli orsi che si trovano nella zona della Val di Sole e Val di Non. Gli orsi sloveni non sono come gli orsi d'Abruzzo che sono più piccoli e da tempo inseriti in un sistema di monitoraggio e controllo che ha reso tranquilla la convivenza con gli esseri umani. Non dimentichiamo certo che la specie rischio è quella dell'orso e che l'orso sloveno sulle Alpi c'è sempre stato ma la sua reintroduzione in condizioni nuove di cultura della popolazione dopo un lungo periodo d'assenza, è una cosa che va gestita con estrema attenzione. La sicurezza della popolazione è una condizione sine qua non perché questi progetti possano avere successo. Non si può rinunciare: né alla sicurezza delle persone da un lato, né alla tutela della biodiversità dall'altro. Sono due facce della stessa medaglia che riguardano la nostra vita in questa epoca. I Parchi erano un tempo gli unici soggetti istituzionali deputati a questa missione. Oggi non è più un problema dei soli Parchi ma di tutte le Istituzioni, perché la sfida della sostenibilità per i nostri figli e nipoti non può essere rinviata. È una delle responsabilità principali che le generazioni attualmente al mondo devono assumersi ora.
Concordo anch’io sulla importanza della biodiversità, in una con salvaguardia ed eventuale recupero delle specie e razze autoctone, sia in campo animale che vegetale, alla pari e in parallelo, aggiungo io, del salvaguardare le nostre tradizioni, che fanno il paio col localismo e campanilismo, a loro volta ingredienti della nostra identità, termine poco gradito a chi preferisce invece uniformare e omologare i nostri comportamenti.
Convengo pure sul concetto che i piani di conservazione non sono concessioni agli animali e alle piante bensì un valore per gli esseri umani, e richiedono sempre incremento di conoscenza, interpretazione dei dati, studio delle interazioni, ecc …, cui la scienza può dare un prezioso ed irrinunciabile contributo, ma anche il “sapere” popolare via via accumulatosi nel tempo può verosimilmente fornire qualche utile indicazione.
Posso sbagliarmi, ma le narrazioni di vario genere susseguitesi negli anni relativamente al lupo, lo hanno rappresentato e raffigurato come un animale delle “”selve, molto restio ad avvicinarsi agli abitati – salvo la favola di Cappuccetto Rosso – probabilmente per timore dell’uomo, fatta forse eccezione per gli inverni oltremodo nevosi, mentre oggi le abitudini del predatore sono alquanto cambiate (come capita frequentemente di leggere).
Tale cambiamento ha spiegazioni non sempre coincidenti, ed ognuna può avere pezzi di ragione, ma in attesa di poter acquisire ulteriori conoscenze, da sommare alle precedenti, andrebbero intanto limitati quanto più possibile i contatti tra i “grandi carnivori” e l’uomo, e le sue attività, ricorrendo a strumenti di dissuasione e deterrenza verso i primi, come risulterebbe stiano sperimentando in territori, anche esteri, con analoghi problemi.
Problemi che tendono ovviamente ad acuirsi nei contesti antropizzati, come sono molti fra quelli nostri, ossia del Belpaese, e le soluzioni configurabili possono rivelarsi semmai controverse, nonché malaccette per l’una o altra parte, ma se il fenomeno non viene “governato” può alimentarsi una crescente insofferenza, se non ostilità, verso dette specie selvatiche, la cui unica “colpa” è quella di seguire il proprio istinto e la propria natura.
P.B. 28.04.2023
P.B.
Nel Pleistocene c’erano tigri, elefanti, coccodrilli e altre amenità. Perchè non reintrodurle? Sarebbe un contributo intelligente alla difesa della biodiversità. Basterà uscire di casa armati di fucile. In tanti si sono preoccupati di un’orsa che non ci sarebbe stata se una politica scellerata e miope non avesse reintrodotto quegli animali nel territorio, ma nessuno (almeno in certi ambienti) ho sentito dire una parola per quel povero ragazzo. Siamo al capolinea della civiltà e del minimo buon senso.
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