La bimba piccola si era arrampicata sulle ginocchia della madre, ecco lì ci si stava proprio bene appoggiata sul suo seno morbido come un cuscino di piume. Vi appoggiava il viso per poterla scrutare dal basso verso l’alto. La sua bocca socchiusa che lasciava intravedere i pochi denti che le erano rimasti, belli dritti, bianchi, ma radi e quando sorrideva metteva in evidenza qualche finestrella che le addolciva il viso. Diceva che li aveva persi durante le sei gravidanze fra le quali una gemellare e il lunghi allattamenti conseguenti. Alla bimba tutto questo non interessava continuava a guardare il suo naso dritto regolare e la grande fronte metà nascosta da un grande fazzoletto di damasco nero con fiori lucidi in evidenza, allacciato sulla nuca che lasciava libero il lobo delle orecchie. Quei lobi che piacevano tanto alla bimba, lei allungava una manina per sentirne la morbidezza e li accarezzava, forse questo la preparava al sonno.
Intanto il tempo passava, ma quest’abitudine di trovarsi fra le braccia della madre continuava a ripetersi.
Un giorno mentre allungava una manina verso l’orecchio della mamma, dopo tanto vide una cosa che prima non aveva mai notato:
“Mamma, ma qui c’è un buco, un buco grande…Mamma dove sono i tuoi orecchini? Io non li ho mai visti!”
La madre tolse la manina dall’orecchio:
“Una volta li portavo, tu non li hai mai visti, perché quando sei nata, io non li avevo più”.
La bimba voleva sapere e faceva domande su domande, com’erano, senz’altro grossi, perché il buco era grande, chi glieli aveva dati e soprattutto perché non li aveva più.
La mamma cominciò a raccontare, glieli aveva regalati sua zia Clorinda la sorella di sua madre che aveva sposato un Monzani. Erano belli tutti cesellati e con una grossa pietra azzurra di forma rettangolare, che pendeva dall’orecchio. Senz’altro erano preziosi, perché quella zia era ricca, in estate da Modena tornava a Castelnovo dove lassù in cima alla scala della piazzetta davanti al voltone aveva un palazzo, poi si era trasferita a Firenze, ed erano anni che lei non ne sapeva più niente. Però ricordava benissimo quando arrivava alla Macchiusa in carrozza e scendeva a salutare la sorella, con quel lungo vestito di seta di un colore scuro, lucido e frusciante e a lei che la guardava imbambolata faceva una carezza sulla testa.
“Sì, questo l’hai già raccontato tante volte, ma adesso dove li hai messi gli orecchini”.
“Lo sai che qualche anno fa il papà è dovuto andare a lavorare in Africa, questo te lo abbiamo raccontato”.
Sì il papà era partito per poter finalmente pagare i debiti che aveva fatto per fare la casa, altrimenti non ci sarebbe più saltato fuori, era partito lasciando la moglie, i quattro figli e un sacco e mezzo di farina bianca per fare il pane.
Forse pensava di tornare in tempo per comprarne dell’altra, ma invece non fu così, lo rimandarono a casa dopo quasi due anni coi soldi si, ma anche la malaria.
Intanto la farina era finita, ricordatevi che questo era un alimento indispensabile per fare il pane e la pasta che poi assieme al latte e alle patate era il loro cibo quotidiano.
La mamma continua:
“Dopo quasi un anno la farina era terminata, certo anch’io pensavo che durasse di più, ma i ragazzi crescevano ed erano sempre affamati, così una mattina mentre setacciavo l’ultima palettata di farina, decidevo di andare da Oliviero Simonazzi, per chiedergli aiuto”.
Però orgogliosa com’era non voleva l’elemosina, ma un sacco di farina in cambio dei suoi orecchini. Lui sorridendo disse:
“No Maria, quando torna tuo marito me la paghi”.
Però lei non accettò erano mesi che non aveva più notizie e sinceramente non sapeva neanche con certezza se sarebbe tornato, lei che aveva letto tanti libri, sapeva che l’Africa era un continente misterioso e che tanti andati laggiù non erano tornati e sapeva anche del “mal d’Africa” e disse:
“Te li dò in pegno se mio marito torna coi soldi tu me li ridai. Poi la prima volta che andando in chiesa vidi i miei orecchini sfoggiati dalla Clotilde, capii che non li avrei più riavuti e mi venne il mal di stomaco”.
“Poi mamma?”
“Poi il papà è tornato coi soldi, ma Oliviero disse che gli orecchini non li trovava più li aveva persi e poi basta così, non ho più portato orecchini, li abbiamo comprati a tua sorella io posso benissimo farne senza”.
Certo il papà appena aveva potuto, era tornato dalla sua famiglia e da questa donna intelligente, forte e generosa.
Il cuore della bimba smise di battere per un secondo e intanto pensava:
“Quando sarò grande la prima cosa che farò sarà comprarti gli orecchini”.
Passarono nove o dieci anni e quella bimba, ormai cresciuta e col primo stipendio in tasca, entrò nel negozio di Ruffini, lì vicino alla piazza principale, proprio dove potete trovarlo ancora adesso, entrò e scelse un paio di orecchini per la mamma, forse non erano proprio come quelli che aveva avuto, forse erano un po’ più piccoli e con la pietra non proprio uguale e non molto preziosa, ma finalmente mentre glieli infilava vide negli occhi della madre un barlume di felicità. Mentre glieli metteva, chissà perché, giurò a se stessa che non avrebbe mai portato orecchini in vita sua e così è stato, io lo so, perché quella bimba ero io.
Elda Zannini
Bellissimo, grazie.
Peccato, perché gli orecchini ti sarebbero stati molto bene.
Bellissimo ricordo, Elda!