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lettera di don Giuseppe Dossetti dall' Ucraina

Che tutti vediamo, che io veda

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Riceviamo e pubblichiamo la lettera di don Giuseppe Dossetti, appena tornato dal l'Ucraina.

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Sono tornato dall’Ucraina, sapendo che mi aspettava il vangelo di questa domenica, che racconta la storia di un uomo cieco dalla nascita, che Gesù guarisce. Ebbene, io mi sento come quel cieco. in realtà, ho visto tantissime cose, ho incontrato persone amiche e anche alcuni protagonisti della guerra e testimoni delle distruzioni che essa porta con sé. Ma non ho visto soluzioni. Anzi, più la guerra si prolunga, più è difficile immaginare che ci possa essere un accordo. Si va avanti, confidando nella prossima offensiva, come se la storia non insegnasse che, a un certo punto, le guerre finiscono solo perché non c’è più niente da bruciare e da distruggere.

Mi è stato detto, da persone che stimo per il loro equilibrio e la loro onestà, che l’Ucraina ha solo due possibilità: o vincere o morire. Una vittoria e la conseguente dominazione russa, vorrebbero dire essere schiacciati e perdere la propria esistenza come popolo. Ma qualcuno mi ha detto la stessa cosa per la Russia: perdere questa guerra, vorrebbe dire che quello che resta dell’impero si dissolverebbe, in tante unità etniche, magari replicando la violenza di incendi che già covano sotto la cenere.

Eppure, non dobbiamo rassegnarci. Secondo il Vangelo di questa domenica, riconoscerci ciechi è già un passo avanti. Gesù, infatti, dice ai capi: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato. Ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Mi colpisce la sicurezza con la quale i protagonisti, ma anche i loro sostenitori, parlano di strategie necessarie e di immancabile successo. Ho parlato con il direttore dell’ospedale militare, ed è stato sufficiente per confermare che il prezzo sarebbe, anzi, già è, la distruzione fisica e morale di centinaia di migliaia di persone.

Ho ricevuto i messaggi di tanti amici, che apprezzavano il mio coraggio. In realtà, non ho corso alcun pericolo. Mi sembrava di ripetere un copione già visto, nella prima Guerra Mondiale: il fronte sul Piave e io come se fossi non a Leopoli, ma a Milano. I veri eroi sono loro, che restano, che accolgono i loro morti e i loro mutilati, che cercano di assicurare ai bambini giornate serene, che trasformano la discesa nel rifugio in un gioco, che abbracciano la bimba di cinque anni che dice: “Perché la guerra ha portato via il mio papà? Io odio la guerra”.

Bisogna accorgersi di queste cose, ma non basta. Non serve moltiplicare la conoscenza del dolore e abbandonarsi al pessimismo e alla tristezza, se non ci si chiede come io ne venga interpellato: rimarrei nella tristezza della mia cecità. Ma allora, è possibile rivedere la luce? Secondo me, sì. Ho incontrato un popolo che prega, magari in forme diverse dalle nostre. La loro liturgia è una scuola di vita. Innumerevoli volte si ripete: “Gospodi pomilui”, Signore abbi pietà. Non ho avuto il coraggio di chiedere se pregano anche per il nemico. L’unica persona che ho interpellato, con la quale ho una confidenza che mi permette di farlo, mi ha detto di sì, che già in altri momenti dolorosi della sua vita, la preghiera l’ha addolcita, l’ha pacificata, le ha permesso di vedere sotto altra luce colui che l’aveva offesa.

La preghiera non ottiene la soluzione magica, ma ci orienta alla via dell’umiltà, del riconoscimento che siamo ciechi. Ci libera dalla presuntuosa sicurezza, dalla retorica vanitosa. La preghiera ci esorta a chiedere la pace come dono e, prima ancora, a essere certi che essa è possibile. Certo, magari non vediamo la via, ma questo dipende dai nostri occhi oscurati da una logica, quella della potenza, che però può essere cambiata. Cominciamo da noi stessi. Non solo l’Ucraina ce lo chiede, ma anche le vittime del terremoto, i naufraghi sommersi in mare, le guerre senza fine in Africa, le ingiustizie a carico dei palestinesi, le povertà di casa nostra.