Il tema di questa poesia di Sylvia Plath (1932-1963) è apparentemente proprio banale. La descrizione della nascita dei funghi, di come si facciano strada nel terriccio e da piccoli granuli crescano anche nei luoghi più insoliti, ma anche come questa crescita sia legata all’emancipazione femminile. Incredibile? Vediamo.
Mushrooms Overnight, very Whitely, discreetly Very quietly Our toes, our noses Take hold on the loam Acquire the air Nobody sees us Stops us, betrays us The small grains make room Soft fists insist on Heaving the needles The leafy bedding Even the paving Our hammers, our rams Earless and eyeless Perfectly voiceless Widen the crannies Shoulder through holes. We Diet on water On crumbs of shadow Bland-mannered, asking Little or nothing So many of us! So many of us! We are shelves, we are Tables, we are meek We are edible Nudgers and shovers In spite of ourselves Our kind multiplies We shall by morning Inherit the earth Our foot's in the door | Funghi Nella notte, molto Bianchi, discreti Molto quieti I nostri alluci, i nostri nasi Prendono possesso del terriccio Si procurano l’aria Nessuno ci vede Ci ferma, ci tradisce I piccoli grani si fanno spazio Morbidi pugni insistono A sollevare gli aghi Il letto di foglie Persino il selciato I nostri martelli, i nostri arieti Senza orecchi, senza occhi Perfettamente senza voce Allargano le fessure Spingono attraverso i buchi. Ci Nutriamo di acqua Di briciole d’ombra Con buone maniere, chiedendo Poco o nulla Siamo così tanti! Siamo così tanti! Siamo ripiani, siamo Tavoli, siamo miti Siamo commestibili A gomitate e a spallate A dispetto di noi stessi La nostra specie si moltiplica Alla mattina Erediteremo la terra Il nostro piede è nella porta |
Sylvia Plath
I funghi sono silenziosi, cominciano a respirare nella notte, quando nessuno li vede e nessuno li può fermare né tradire. Senza farsi notare acquistano forza, sono come morbidi pugni (un ossimoro che unisce l’immagine di forza a quello di dolcezza) che sollevano gli aghi caduti dei sempreverdi e le foglie che coprono il terreno come un lenzuolo.
La loro forza è tale che riescono a spaccare il cemento, si fanno martelli e arieti da guerra che non vedono, non sentono e non hanno voce perché la resistenza fisica gli è sufficiente. Questa forza allarga le fessure del selciato e si infila tra i buchi. Non hanno bisogno di molto, si nutrono di acqua, di briciole, sono modesti, ma anche così numerosi! Sono miti, non si notano, come mobili in un angolo. Possono essere mangiati, ma continuano a farsi strada; quasi nonostante sé stessi questa forza li spinge e si moltiplicano: giunto il mattino “erediteranno la terra”, avranno infilato il piede nella porta e non li si potrà ignorare.
Sylvia Plath e Ted Hughes
Cosa ci vuole dire questa poesia che descrive un fenomeno naturale certo alquanto insolito come tema poetico? Ovviamente dobbiamo leggere i versi come una metafora estesa, cioè come un’immagine che attraversa tutto il testo e crea un significato che va oltre la superficialità delle singole parole. Questi funghi hanno dita dei piedi, hanno nasi, pugni, usano le spalle e i gomiti, sono come persone perché è esattamente alle persone che Sylvia Plath sta pensando.
La poetessa nacque a Boston da un padre professore universitario di origine tedesca che morirà quando la figlia avrà solo otto anni: una grande perdita nella vita della Plath che cercherà nelle sue poesie la figura del padre, come pure cercherà sempre di raggiungere gli alti obiettivi che lui si aspettava da lei. Anche il rapporto con la madre sarà sempre conflittuale e i rapporti difficili (in una conversazione con la sua terapista dirà: “La odio”). La Plath comincerà presto a scrivere poesie e sarà un’ottima studentessa, così brava da ottenere una borsa di studio che la porterà a Cambridge in Inghilterra, dove si sentirà vicina ad uno dei poeti che lei adorava, l’anglo-irlandese W.B.Yeats. Sylvia imparerà ben presto che negli anni ‘50 è necessario che una donna si faccia strada come i funghi, apparentemente fragili eppure così forti, se vorrà emergere in un mondo dominato dagli uomini. Ed emergere era quello che voleva, nel mondo della poesia, perché era conscia delle sue doti ed aveva la forza che serve per infilarsi nelle fessure, nelle crepe del cemento. A Cambridge scoprì le poesie di Ted Hughes, un poeta dello Yorkshire che aveva già dimostrato indubbie capacità, quelle che lo faranno diventare uno dei maggiori poeti inglesi della seconda metà del ventesimo secolo. Quando Sylvia seppe che Hughes avrebbe partecipato ad una festa a Cambridge, non si fece sfuggire l’occasione: dopo pochi mesi erano sposati. Era il 1956.
Con la stessa cieca determinazione dei funghi, Sylvia continuò a studiare, in Inghilterra e negli USA, ed a produrre poesia, lavorando a fianco del marito. Ted dirà di questo periodo: “We had become so close, we had worked together so closely, it was uncanny - as if we had become one person” (eravamo così vicini, lavoravamo in modo così stretto, era inspiegabile - era come se fossimo una persona sola). L’affascinante Hughes non aveva però il dono della fedeltà e probabilmente si sentiva impotente di fronte ai problemi di depressione di Sylvia, depressione che si risvegliava sempre più forte come quando, nel 1953, aveva tentato il suicidio. Neanche la nascita di due figli, Frieda e Nicholas, riuscì a risolvere i problemi nella coppia. Nel 1962 Hughes lasciò Sylvia per un’amica comune, Assia Wevill. Dalla poesia si potrebbe evincere che la donna Sylvia si senta come ‘mangiata’, commestibile come i funghi, da quest’uomo carismatico e impotente di fronte alla sua malattia, messa da parte come un mobile inutile.
L’inverno ‘62-’63 fu molto freddo, tanto da essere chiamato The Great Freeze. La Plath si stabilì a Londra, in una casa dove aveva abitato Yeats, e continuò a scrivere con furore, spingendo coi pugni qualunque ‘terreno’ la schiacciasse e producendo poesie a volontà: “So many of us!/ So many of us!”. Come dice l’apostolo Matteo nel suo Vangelo i miti, “meek”, erediteranno la terra, “We shall…inherit the earth”, e Sylvia si mette in questa categoria lottando con determinazione cieca, ‘senza voce e senza orecchie’. Ma anche se era riuscita ad infilare il piede nella porta, “our foot’s in the door”, la depressione, la tristezza, l’incertezza della sua relazione con Ted, sola nella casa di Londra, nel gelo dell’inverno che ghiacciò l’acqua nelle tubature e la lasciò senza corrente elettrica, con due bambini piccoli, furono troppo per lei.
Nelle prime ore del mattino dell’11 febbraio 1963 sigillò la porta e le finestre della cucina, preparò la colazione per i figli, che dormivano nella loro stanza con la finestra spalancata, e infilò la testa nel forno a gas. C’è chi dice che avesse organizzato tutto in modo da poter poi essere salvata e che questo fosse ‘solo’ un grido di aiuto, ma non lo sapremo mai. E poiché la vera poesia va oltre gli eventi biografici dell’autrice, il suo suicidio resta un grido, un grido simile a quello di Assia Wevill che sei anni dopo compirà lo stesso gesto, una volta resasi conto che Hughes non l’avrebbe sposata, portando con sé la loro figlia di quattro anni.
Ciò che sappiamo è che i funghi di Sylvia rappresentano tutti i miti, tutti i senza voce, non solo le donne, che conquisteranno la terra con la forza e la determinazione di voler essere ascoltati. I miti, con le loro maniere educate, quelle che ci si aspetta da una visione stereotipata delle donne, dovranno trovare pugni morbidi ed il modo di mettere il piede dentro la porta con la forza e la perseveranza degli umili funghi.