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Le testimonianze

Inaugurata la mostra “I soldati che dissero no”

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Grande partecipazione nel pomeriggio di martedì 31 gennaio alla Casa della Cultura di Casina, per l’inaugurazione della mostra “I soldati che dissero no” , che rimarrà aperta fino al 4 marzo e potrà essere visitata negli orari di apertura della Biblioteca.

Questa iniziativa, nell’ambito delle commemorazioni in occasione della Giornata della Memoria per le vittime dell’Olocausto, è stata legata ad una conferenza di Michele Bellelli, ricercatore del Polo Archivistico Istoreco, sugli Internati Militari Italiani (IMI) del territorio reggiano.

La storia degli IMI è poco conosciuta, ma è stata una forma di resistenza disarmata che ha impegnato circa 800.000 soldati italiani. Catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre 1943 furono deportati nei campi di prigionia e il regime nazista, non riconoscendoli come prigionieri di guerra, riuscì a privarli delle tutele garantite dalla Convenzione di Ginevra e dalla protezione della Croce Rossa Internazionale.

Durante il loro internamento, soprattutto agli ufficiali, venne ripetutamente offerta la possibilità di essere liberati, a patto di arruolarsi nelle forze armate tedesche o in quelle della Repubblica Sociale Italiana, ma la gran parte di loro rifiutò, finendo col morire di stenti nei lager.

Si stima, infatti, che gli IMI deceduti siano stati tra i 37.000 e i 50.000.

Toccanti le storie raccontate, testimoniate dai documenti lasciati da quei giovani.

Alenin Barbieri detto Lino nato il 21 marzo 1919. E’ un giovane robusto e prestante con un livello di istruzione considerato alto per l’epoca, la 5° elementare, che potrebbe dargli un buon un futuro lavorativo, ma viene arruolato nell’aprile del 1938. L’8 settembre viene catturato e portato in Germania nel Lager 782/c dove viene messo a lavorare per la produzione bellica. Sono 160 gli italiani internati in quel campo e sono divisi in 10 baracche separate da filo spinato. Lui vive nella decima insieme ad altri 15 prigionieri. L’esercito sovietico li libera il 23 aprile, ma un comando tedesco riesce a ritornare padrone del campo e decidono di fucilare gli italiani.

Tra loro muore anche Barbieri. Da quell’eccidio si salvano solo 4 persone che avranno un ruolo chiave come preziosi testimoni della strage e saranno loro a identificare i compagni mosti quando le salme verranno riesumate. I resti dei soldati verranno estradate in Italia solo nel 56.

Carlo Porta, militante antifascista che a soli 19 anni viene arrestato per poi essere mandato in confine in Albania e catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre.

“I tedeschi si mimetizzarono tra di noi, travestiti da aviatori italiani. Eravamo allo sbando, senza nessuna indicazione e alcuni dei compagni si unirono alla resistenza Albanese, ma chi rimase lì la settimana dopo fu catturato dai tedeschi e deportato nel campo di concentramento di Berlino come IMI. Eravamo in 150, caricati su una tradotta per carro bestiame e il nostro viaggio durò 16 giorni e 17 notti. Divenni il prigioniero numero 108481. Avevo una giacca a righe gialle e grigie, dormivo in una baracca e la prima parola tedesca che ho imparato voleva dire svegliati! e ci veniva gridata ogni mattina da una guardia. Al campo c’erano dai 30.000 ai 40.000 prigionieri, tra cui molte donne incinta. Si moriva di stenti, fame e malattia. Ogni mattina si procedeva alla raccolta dei cadaveri con una carriola che venivano poi tumulati in una fossa comune. Il lavoro era pesantissimo e il cibo quasi inesistente. Si mangiava solo barbabietole, rape, margarina e alla domenica patate. Ogni sera veniva consegnato un pane integrale di circa un chilo e mezzo che era da dividere x sei persone e che ci doveva durare fino alla sera dopo. Ricordo che ci litigavamo i turni per raccogliere le briciole. Al campo avevo trovato un carabiniere di Ascoli che aveva prestato servizio a Reggio Emilia. Tutte le sere parlavamo di lasagne, gnocchi e tortelli e così ci pareva di andare a letto con la pancia piena!”.

A chi gli domandava come avesse fatto a resistere rispondeva: “Quando hai la convinzione tiri su anche il morale. Non potevo morire lì perché a casa avevo una famiglia che mi aspettava e non potevo cedere. Ci chiesero di arruolarci nell’esercito repubblicano in cambio della libertà, ma noi rifiutammo tutti. Anzi facemmo una propaganda contraria che portò ad una resistenza in tutto il campo. Dei 300 italiani internati nessuno firmò, nonostante ci avessero lasciato a digiuno per tre giorni e minacciassero di mandarci in Russia.Gli ultimi sei mesi di prigionia furono i più terribili. Eravamo tutti stremati sia moralmente che fisicamente , ma restavamo attaccati alla vita con le unghie e con i denti. Non tornarono i più furbi, ma i più fortunati!”

A causa delle sue scelte Carlo fu trasferito per 3 anni in campo fascista e per quasi 2 in vari campi nazisti ma il suo no rimase saldo per sempre.

Domenico Tedeschi quinto di 5 figli di cui 2 militi della 1 guerra mondiale, non avrebbe dovuto essere richiamato nell’esercito. Dopo essere stato mandato in Africa, dove ricevette un riconoscimento per il suo eroismo, venne spostato in più paesi stranieri fino ad approdare ad Atene nel 43.

“Quella sera fummo tutti invitati ad un cineforum. Eravamo contenti di andare a vedere un film, ma era solo un trucco perché fossimo tutti insieme e i tedeschi ci potessero catturare. Ci chiesero se qualcuno voleva collaborare con loro e con la repubblica sociale, ma tutti rifiutammo. La scelta era tra la buona pastasciutta e sbobba da prigionieri, ma nessuno di noi scelse la pastasciutta”.

Venne deportato in Germania nello Stalag 3° di Brandeburgo e diventò il prigioniero 3612.

“Si viveva in baracche senza luce e se di notte dovevi recarti al bagno al ritorno per orientarti dovevi chiamare il tuo vicino che con la voce ti facesse da guida. Spesso quando tornavi non avevi più il letto libero e ti toccava aspettare l’alba in piedi. Ogni mattina caricavamo su un carretto a tre ruote tra i 13 e 15 cadaveri. Erano tutti morti di stenti”.

Il 3 agosto del 1944, tramite Croce Rossa riesce a inviare un messaggio per fare sapere alla madre e alla moglie che è vivo. Per non farle soffrire afferma di stare benissimo e di non aver problemi.

“Grazie ai compagni addetti ai lavori agricoli si poteva mangiare di straforo qualche patata, ma mangiarle crude provocava ulcere, a volte letali, e molti compagni morivano così.Se si veniva scoperti si veniva picchiati e a volte si rischiava anche la fucilazione. Ricordo una guardia che uccise un mio compagno perché raccoglieva erbe commestibili in un prato”.

Domenico venne liberato dall’armata russa il 27 aprile del 45.

Le guardie tedesche vennero uccise tutte tranne un mutilato di guerra che era stato particolarmente clemente con i prigionieri.

Tornò a casa il 1 settembre del 45, dove trovò ad attenderlo madre, moglie e figlia, che nemmeno lo riconosceva.

“La guerra mi ha rovinato la gioventù e non so ancora come ho fatto a scamparla”.

Molto partecipata la storia del nostro don Pietro Zanni, per anni parroco di Felina, dove fondò anche “Casa Nostra”.

Giovane cappellano militare a Pola, rifiutò il rimpatrio offertogli dai militari tedeschi preferendo seguire i suoi soldati nella prigionia di Germania. I campi di prigionia di Luckenwalde, Berlino Fidicinstrasse e Berlino Dieffenbachstrasse lo videro lottare contro i maltrattamenti inferti ai soldati che rifiutavano decisamente (anche sul suo esempio) l’arruolamento nelle truppe naziste o fasciste. Spesso, grazie alle conoscenze ecclesiastiche, riuscì ad ottenere piccoli miglioramenti che furono la salvezza per molti dei prigionieri.

In particolare si ricorda quando scoperto che seicento soldati italiani stavano morendo di fame e gli riuscì di farli soccorrere con un mezzo vagone ferroviario di salami ungheresi e di medicinali inviati dal Papa. La sua dedizione fu a lungo ricordata da tanti ex prigionieri

Tornato in Italia fu spedito in una piccola parrocchia dell’Appennino Reggiano, appunto Felina. Instancabile, si rimboccò le maniche e cominciò ad occuparsi dei più poveri, soprattutto bambini. “Molti dei miei ragazzi, morendo, mi avevano affidato il compito di pensare ai loro figli e quando tornai in Italia cercai di aiutare come potevo tutti quegli orfani. Lo sentivo come un dovere, esattamente come avevo aiutato i loro padri quando erano prigionieri”.