Alla luce di quanto sta accadendo queste ore, con i violentissimi rovesci in atto e sulla tragedia delle Marche, ospitiamo l'intervento di Giampiero Lupatelli, economista territoriale. Un intervento dettato dalla personale vicinanza ai luoghi colpiti dall'alluvione nelle Marche.
Lupatelli si è formato ad Ancona con Giorgio Fuà e Massimo Paci; da quaranta anni si occupa di politiche territoriali collaborando con Osvaldo Piacentini e Ugo Baldini nell’alveo della tradizione urbanistica di CAIRE, la più antica società professionale d’Europa in forma cooperativa. Ha partecipato alla redazione del Progetto Appennino della Regione Emilia Romagna, all’Atlante Nazionale del Territorio Rurale per il Ministero delle politiche Agricole, al progetto Appennino Parco d’Europa (APE) per il Ministero dell’Ambiente, alla Strategia Nazionale per le Aree Interne.
_______
Sono stato colpito a fondo dalle notizie e dalle immagini che alcuni amici pesaresi mi hanno mandato ieri sera sulla alluvione che ha sconvolto e disastrato terre che sono care alla mia memoria e alla mia identità.
Il borgo di Cantiano sommerso, uomini e cose trascinati dalla corrente in una scena che mi ha ricordato le immagini infantili della Firenze 1966 (si parva licet).
Ho dato sfogo ai sentimenti: sconforto, angoscia scoramento; pensando che ci sarebbe stato tempo e necessità, sistemate come si può le cose che si possono sistemare, per capire di più e meglio perché è accaduto e come potrebbe non accadere.
Il governo del territorio è il mio mestiere, le montagne sono la mia casa. Sento un obbligo morale a capire di più e a contribuire a capire meglio tutti insieme.
Se debbo dire la verità la prima e più radicale considerazione che mi viene da fare è analoga a quella che mi ha spinto a riflettere e poi a scrivere dopo la pandemia.
Una considerazione sulla nostra fragilità, come specie, nel contesto burrascoso nel quale la vita, della nostra specie ma anche delle altre, si trova ad essere messa in scena. Nonostante la nostra hybris ci faccia proclamare (apocalitticamente ma non senza un mal sopito orgoglio) il nostro tempo come “antropocene”, a me sembra ancora di dover riconoscere che siamo in balia degli eventi e che siamo assai piccola cosa.
Certo su questi eventi abbiamo possibilità di agire, nel bene e soprattutto nel male.
Ma i 420 mm di pioggia caduti a Cantiano in poche ore, assai più di un terzo della precipitazione media annua registrata ordinariamente in quei luoghi, è innanzitutto un invito a riconoscere una intrinseca fragilità della nostra specie, una sproporzione assiale tra il livello di concentrazione e la eccezionalità delle forze che l’instabile equilibrio geofisico del nostro mondo sa mettere in campo e quella degli artefatti tecnologici e sociali che la scimmia nuda riesce ad escogitare.
Abbiamo delle responsabilità e con queste ci dobbiamo misurare.Le abbiamo globalmente, come specie, per le emissioni che il ciclo del carbonio produce e le alterazioni climatiche accertate che queste producono.
Le abbiamo localmente, per la natura e i caratteri delle trasformazioni territoriali che abbiamo prodotto con le nostre azioni. È ancora di più con le nostre omissioni.
Delle prime siamo sgomenti per le dimensioni e la scala delle trasformazioni di cui parliamo e la distanza incolmabile che separa l’azione individuale dalle conseguenze sociali. Certo abbiamo visto che il riscaldamento globale può essere una istanza politicamente rilevante ma siamo troppo lontani dalla ingenuità radicale di Greta per non ricondurre le ansie per la sopravvivenza della specie alla misura più usuale e dunque tranquillizzante che riduce il polemos allo scontro tra amici e nemici, là tutte le colpe, qua tutte le ragioni.
Ancora di più questo gioco di riduzione di una responsabilità estesa, complessa ed intricata, al gioco manicheo di noi e loro si propone con assoluta evidenza nell’affrontare le dimensioni locali delle trasformazioni che generano o almeno amplificano enormemente l’esercizio distruttivo delle forze della natura.
Anche in queste ore leggo proclami stentorei che individuano “senza se e senza ma” le responsabilità (e i responsabili).
Suggerire la presenza fisica, quasi palpabile, di un responsabile che, per i propri sordidi interessi, ha messo a repentaglio la sicurezza delle comunità “cementificando” sponde fluviali e piane alluvionali, produce temporaneo sollievo nelle nostre menti e nei nostri corpi sovraeccitati alla visione del disastro, alla percezione del pericolo.
Questo responsabile c’è sicuramente ma non ha (almeno per come io me ne avvedo) i lineamenti arcigni e caricaturali dell’ avido capitalista che la tradizione populista, alimentata di frustrazione e rancore, della piccola borghesia europea quasi 100 anni fa ha attribuito al capro espiatorio ebreo.
Cito Alexander Zinovijev, insuperato dissidente, logico matematico e umorista russo (che dissidente era e dissidente è rimasto anche dopo la caduta del comunismo. Per lui noi occidentali sbagliavamo immaginando il popolo sovietico oppresso da un pugno di oligarchi: “Ogni cittadino sovietico ne opprime almeno un altro!”
Da noi la febbre del mattone dilaga e travolge il sentimento profondo di un popolo che assai più che di santi e navigatori è fatto di capomastri, di geometri e di bricoleur edilizi.
Mi è capitato di essere avvicinato in seminari alpini sulle aree interne da figure serie, ambientalisti autentici e motivati che, dopo avermi rimproverato la troppa indulgenza nel fustigare i comportamenti troppo poco rispettosi dell’ambiente mi chiedevano lumi per valorizzare un piccolo lotto che la moglie aveva ereditato da qualche parente e che forse, nella fiera degli investimenti del Pnrr, poteva portare a un modesto profitto!
Ciò detto, immaginando di riuscire a fare i conti con l’anima del costruttore che alberga entro ognuno di noi, e potendo levare così una voce più limpida contro la “cementificazione”, temo che saremmo ancora molto, molto lontani dall’essere a metà dell’opera.
Perché, assai più delle azioni, da stigmatizzare sono le omissioni: in poco più di cinquant’anni, da quando il miracolo economico è decollato, nel nostro Paese 93.000 kmq di territorio sono “usciti dal controllo” delle aziende agricole alla cui presenza e azione erano ancora chiaramente riconducibili alla metà del XX secolo.
93.000 kmq sono quai un terzo del territorio nazionale e la loro “scomparsa” non è un gioco da ragazzi.
Non più del 10% di questo territorio svanito è stato (spesso malamente) assorbito dalla evoluzione dello spazio urbano: quel consumo di suolo contro il quale cerchiamo di ergere barriere (soprattutto in momenti come questo di ciclo edilizio stagnante e di pressioni fondiarie assai modeste).
Per il 90% invece si tratta di abbandono, di spazi abbandonati da utilizzazioni marginali di una stentata agricoltura di sussistenza di cui si sono persi ormai anche i riferimenti proprietari. Di cui si sono perse soprattutto le decine e centinaia di milioni (se le si cumula nel tempo) di giornate di lavoro destinate alla manutenzione e alla cura, alla gestione del bosco e della sua permeabilità, al mantenimento degli spazi aperti, alla conservazione e al ripristino degli scoli.
Un lavoro immane, faticoso e spesso doloroso, segno di una comunità che doveva compiere miracoli per combinare il pranzo con la cena e per questo non poteva permettersi di uscire dal solco di una economia circolare dove ogni scatto sarebbe stato un lusso inammissibile. Nella generazione dei nostri nonni e soprattutto delle nostre nonne non è difficile recuperare il ricordo di fisici asciugati e deformato dalla fatica per assicurare un equilibrio ecologico con non era una aspirazione è ma una necessità carceraria.
Questi milioni di giornate di lavoro di manutenzione che non ci sono più sono la causa prima della difficoltà dei nostri territori antropizzati nei millenni a reggere l’onda d’urto dei fenomeni naturali, amplificati oltre misura dal mutamento climatico che, altrimenti, abbiamo favorito e generato.
Per questo la ricerca dei colpevoli, impersonati in uomini e donne avide che ne hanno tratto profitto, o invece sublimati in un “Sistema” del tutto impersonale e per questo ancor più minaccioso, serve davvero a poco. Trovare le colpe serve a nulla se non serve a trovare le soluzioni. E le soluzioni sono difficili da trovare.
Capisco che quando con i miei amici - che come me amano ragionare dentro la complessità e pensano che il Governo del territorio non si fa con qualche decreto draconiano e nemmeno con flussi di spesa imponenti, che pure in questa stagione potremmo anche immaginare- il nostro discorso possa sembrare lontano dalla concretezza degli uomini pratici, che sanno sempre cosa si deve fare in ogni momento è in ogni luogo e sembrano non essere mai con le mani in mano.
Di questa concretezza, di opere più o meno utili, qualche volta inutili e dannose, i nostri territori, le nostre montagne sono piene.
Le opere però, da sole almeno, non cambiano la storia delle comunità, non generano nuovi abitanti, nuovi desideri di abitare e nuove attenzioni a come si possono abitare territori fragili ed esposti.
Le opere hanno bisogno di essere accompagnate (precedute, talvolta) da una “presa in carico” della complessità che interpreta le sfide della sostenibilità come un vero e proprio processo educativo di cui le comunità sono a un tempo le protagoniste e le destinatarie.
Questo processo che trasforma oggettivamente la società mentre trasforma soggettivamente i protagonisti del cambiamento non può essere messo in campo altrimenti che con la condivisione di strategie che mettono al centro le comunità (da rigenerare assieme ed ancor più dei borghi e dei paesi che le ospitano) e che assumono orizzonti lungimiranti e non si fanno spaventare dalla sequenza contraddittoria delle contingenze politiche. Chiamatele Strategie per le Aree Interne, Strategie per le Green Community, Strategie per lo sviluppo locale sostenibile. Chiamatele come volete ma cominciare a praticarle, a riconoscere che sempre, in un sistema complesso, quando una cosa ti serve dovevi averci pensato prima. Che non si può vivere nella contemporaneità se non si investe nel futuro, sugli abitanti del futuro e sulle competenze che consentiranno loro di affrontare e “domare” problemi che ci sembrano inaffrontabili. Ci vuole generosità e coraggio ma, per dirla con le parole di Luigino Bruni che tanto piacciono a Marco Bussone, “Bisogna avere il coraggio di cambiare molto per non rischiare di perdere troppo”.
Ne avremo la lucidità e l’energia?
Fare i conti con i disastri alluvionali delle montagne marchigiane ci costringe ad essere più bravi di Don Abbondio. Forse il coraggio, se uno non c’è l’ha se lo può anche dare! Le comunità servono anche a questo."
In questa nota mi è parso di poter cogliere un passaggio che, salvo averlo frainteso, riesce a riassumerne il senso più complessivo, ed è laddove si dice che “trovare le colpe serve a nulla se non serve a trovare le soluzioni. E le soluzioni sono difficili da trovare”, e a questo riguardo ho l’impressione che noi ci siamo fermati non di rado alla prima fase, ossia quella delle “colpe”, senza riuscire a mettere in atto le rispettive soluzioni, fors’anche perché difficili da trovare come sta giustappunto scritto nell’articolo, il che, di riflesso, dovrebbe attenuare per così dire le “colpe” in ordine gli accadimenti indesiderati (questo almeno a rigor di logica).
E mentre noi abbiamo ormai una abituale tendenza a voler dare “nome e cognome” a presunti responsabili, ogni qualvolta succede qualcosa di calamitoso e malaccetto, qui si parla invece di “una responsabilità estesa, complessa ed intricata”, ed in effetti, a ben riflettere, se “in poco più di cinquant’anni….. nel nostro Paese 93.000 kmq di territorio sono usciti dal controllo delle aziende agricole”, di cui il 90% per abbandono, mi sembrerebbe difficile, se non impossibile, individuare mancanze e negligenze a carico di chicchessia, visto che dovremmo casomai “tirare in ballo” l’incolpevole fenomeno sociale che nei decenni ha via via portato all’esodo dalla terra.
Un esodo che avrebbe fatto perdere “milioni di giornate di lavoro di manutenzione” del territorio, manutenzione ottenuta anche mediante le cosiddette “opere minori”, ma da doversi eseguire con assidua continuità, vedi ad esempio il ripristino degli scoli, e attuabili in buona sostanza soltanto da un sistema di conduzione delle nostre campagne pressoché estinto, ossia quello delle scorse generazioni – fatto di grande dedizione, impegno, fatica, e tantissime mani – oggi non più ripristinabile o riproducibile, causa una pluralità di ben note ragioni, nonché difficilmente surrogabile anche volendo ricorrere ad altre formule di cura e custodia del territorio.
Quando poi sentiamo parlare di casse d’espansione per mitigare gli effetti delle piene, viene da chiedersi se siano sempre fattibili, nel senso di disporre sempre degli spazi necessari, dal momento che, come qui leggiamo, sono state cementificate sponde fluviali e piane alluvionali, il che può vanificare anche la più ferma intenzione di volerle realizzare, cui possiamo aggiungere il riscaldamento globale del quale va soffrendo l’intero pianeta, e il crescente verificarsi di eventi atmosferici di cui “siamo in balia” e dei quali non sempre riusciamo a prevedere la gravità, posto che si vanno intensificando e acuendo nel loro progredire.
Non mancano certamente i casi in cui eventuali ritardi, trascuratezze, ecc …, possono avere “paternità” abbastanza precise, ma l’insieme delle considerazioni avanti riportate porterebbe a dire che vi sono non poche circostanze addebitabili solo ad errori collettivi, accumulatisi nel corso degli anni, cui va cercato di porre rimedio quanto prima possibile, sperando di riuscirci, e che non sia troppo tardi, ma andrebbe nel contempo evitato di assecondare un tipo di società dai “comportamenti difensivi”, volti cioè a “coprirsi le spalle” e a scaricare se del caso le “responsabilità” (il che, a mio avviso, non giova alla armonia dei rapporti che dovrebbe idealmente vigere in una comunità).
P.B. 20.09.2022
P.B.