Tradizione e storia dell'Appennino
Nell'antico calendario montanaro, la terza decade di luglio era tutta per Santa Maria Maddalena.
Pellegrinaggi, feste, fiere celebravano questa santa così congeniale al temperamento di chi, pur vivendo in borghi e paesi, aveva nel sangue il richiamo delle solitudini dell'alpe e, provato da eventi umani e naturali, viveva così forte il contrasto tra vendetta e perdono, tra peccato e virtù.
«Mala donna di mali amori, occasione di peccato per i peccatori», diceva una narrazione dialettale; «mangiare e bere non le mancava; di ogni sorta lei ne aveva, un palazzo in città, la più bella per beltà». Eppure era insoddisfatta e, saputo di Gesù, lo insegue, insiste per vederlo, gli lava i piedi con le lacrime e glieli asciuga con i capelli finché il Maestro le dice: «Maria Maddalena / io so ben donde la tua pena. / Perché tu non torni più a peccare / sett'anni in un deserto devi stare».
Sta sette anni in riva al mare, poi sette anni su di un monte, sette su un altro e un altro ancora. Forse per dare credibilità alle tradizioni degli infiniti monti che avrebbero visto la peccatrice di Magdala portare a termine il grande pentimento. Al termine del quale, la leggenda mette parole che molcevano il cuore al montanaro ramingo per spiagge e maremme, afflitto dalla fame e dalla sofferenza: «Maria Maddalena peccatrice, / sei del paradiso la più felice, per la tua pena che è stata tanta / vieni beata nella gloria santa».
Come non leggere in queste parole la speranza evangelica che gli ultimi saranno i primi; che chi più ha provato il vuoto della lontananza, pentendosi, sarà più vicino al cuore di Dio?
A gente che viveva di pastorizia, la parabola della pecora smarrita suonava come novella non solo buona, ma comprensibile quant'altre mai.
Sul Ventasso, un antico romitorio di donne
Per il tanto che se ne è scritto, l'eremo di santa Maria Maddalena al Ventasso è forse il più noto.
Esistente nel XIII secolo. Nel 1319, con i dovuti permessi, vi si insedia Benvenuta, figlia di Ferrario della Costa. Nel 1376 vi è Richildina da Rossena, anche lei dedita alla vita eremitica. Nel 1387 Vannuccio Dalli, col benestare di Bonifacio IX, vi costituisce un beneficio con giuspatronato della sua famiglia.
Nel sec. XV la “festa” per eccellenza in alta Val di Secchia è quella della santa. Non solo pellegrinaggio, ma anche fiera: grande e frequentata dai versanti di Parma e Reggio, vi si commerciano soprattutto i cavalli e perciò è strettamente sorvegliata dai Dalli per conto del comune cittadino. Dal 1600 l'aspetto religioso riprende il sopravvento, e pur tra il pericolo di disordini causati dall'affollamento, emerge più limpido l'aspetto devozionale e penitenziale.
Le parrocchie vi giungevano in processione con tre o più ore di cammino. La croce astile in testa, poi gli stendardi delle confraternite, il clero in abiti liturgici, si procedeva al canto ripetuto delle litanie della Madonna, dei santi, del Miserére. Ogni tanto una sosta per riposare ascoltando una predica di invito al perdono e alla riconciliazione.
Giunti all'eremo, a quota 1501, messa solenne, confessioni, comunioni, deliberazioni più importanti per la vita parrocchiale. Nel 1892, ad esempio, la parrocchia di Cervarezza stipulò il solenne impegno di ricostruire la nuova chiesa; ogni cervarezzino scese perciò con un sasso in spalla preso lassù dove si radicava la fede cristiana del paese.
Contatti con la Provenza
Dopo almeno settecento anni, abitudini, costumanze, affetti delle popolazioni della montagna si sono tanto consolidati attorno a quest'oratorio da perderne perfino al memoria delle origini. Di qui il bisogno di raccontarle secondo i modi del tempo creando le tante leggende sul suo inizio.
Una di queste - raccolta a suo tempo da Teresa Romei Correggi e riferita da Umberto Monti - vuole che l'oratorio sia nato dal ritrovamento di una immagine della santa, sotto la quale una scritta chiedeva di erigere sul luogo stesso del ritrovamento un luogo di preghiera e ci venirvi processionalmente dai paesi sottostanti.
Ritenuta ingenua perché ricalcata su modelli diffusi e abusati, può nascondere tuttavia un fondo di verità. Può ricordare una prima traccia di culto portata da un viaggiatore proveniente, tramite Luni (o Lerici) , dalla Provenza, dove storicamente si è originato e diffuso il culto della Maddalena.
L'oratorio del Ventasso, infatti, è collocato su di uno spiazzo dove faceva tappa la strada dell'Ospedalaccio (il valico cerretano ora abbandonato), identificabile con l'antica strada Luni-Reggio. Una strada alla quale gli studi reggiani hanno finora dato un'importanza relativa, certamente inferiore a quella che vi hanno dato gli studi su Luni, città di mare che con Reggio divide fondatore e anni di fondazione: Marco Emilio Lepido, anni 177-173 a. C.
Luni, seguito da Livorno e Lerici, era il porto d'imbarco per il sud della Francia. Il viaggiatore in partenza da Marsiglia non dimenticava mai di fare una visita alla “Sainto Balmo”, come localmente era chiamata la grotta della Maddalena. Vi sostò il Petrarca componendovi l'elegia che comincia Dulcis amica Dei. Vi fu pellegrino il prete reggiano don Carlo Ferrarini, in partenza, nel 1648, per le missioni dell'India.
Alla sua grotta invocavano la sicurezza del viaggio per mare e per terra. Appare quanto mai verosimile, quindi, che, ritrovando sulle strade di montagna grotte simili nei luoghi più impervi o selvaggi, vi diffondessero immagini devozionali della santa.
Sta il fatto, comunque, che la devozione a santa Maria Maddalena si diffonde a macchia d'olio sui monti toccati dalle strade che, dai porti della Lunigiana, varcati i passi cerretani, conducevano a Parma, a Modena, a Reggio.
A Castelnovo, nel borgo-mercato
Scesi dal Ventasso, troviamo un secondo luogo significativo di culto alla Santa in Castelnovo ne' Monti il borgo già attivo in età canossana. Nessuna solitudine, qui, nessuna grotta, nessun deserto, anzi luogo nato esclusivamente per fiere e mercati, avamposto - col suo “mercato di Luni” dei commerci di mare.
Difficile dire come e quando sia sorto qui il culto della Maddalena. È avvertibile tuttavia una concomitanza fra il decadere della fiera sul Ventasso e l'affermarsi di quella in Castelnovo. La grande fiera di san Michele iniziava con una funzione sacra nell'oratorio civico dedicato alla Maddalena. E allora parrebbe spontaneo far fede all'ipotesi della Maddalena protettrice anche dei commercianti - provenzali e no - che viaggiavano per mare e monti.
Qui lasciamo le deviazioni che ci portano ad altri luoghi maddaleniani della Val d'Enza, come la millenaria chiesa di Roncarola, e, immettendoci sulla verabolense, varcato il rio Spirola, risaliamo a Saccaggio di Pontone.
Saccaggio: il sapore del medioevo
Meno noto fra i tre, l'oratorio maddaleniano di Saccaggio si alza su un cocuzzolo del versante meridionale del monte Fosola. Una chiesetta minuscola, col campanile a vela, una sagrestia così piccola che due persone non ci si muovono. Sull'altare un'icona annerita dalle candele, rattoppata con ago e filo da un ingenuo amore contadino. Nei superstiti barlumi di colore s'intravedono elementi della leggenda di Jacopo da Varagine. I conci dei muri, nella irregolare ricollocazione, denunciano i vari rifacimenti che (a parte il pavimento di mattonelle sassolesi) non hanno alterato il gusto e la linea medievali.
Lì accanto una famiglia lavora il podere un tempo del beneficio parrocchiale di Pontone. Partito l'autocarro che viene a prelevare il latte della stalla, i ritmi di vita sembrano ancora quelli del secolo XII, sul finire del quale la chiesetta venne consacrata
A cinquecento metri, sul monte Lagoforno, la grotta della santa. Un masso erratico appuntito, quasi una freccia mirante al cielo. Alla sua base una cavità d'una quindicina di metri quadri era il rifugio, in tempi andati, di eremiti e pellegrini.
E fuori della grotta, un sasso di ben più modeste proporzioni con funzioni di mensa, di sedile, di letto. Davanti, il cielo aperto a tutto sole; il panorama splendido delle alte valli di Secchia e Secchiello, degli alpeggi di Prampa, dei valichi per Toscana e Liguria.
Anche qui la tradizione locale afferma che la Maddalena si è fermata a fare penitenza, almeno per qualcuno di quei trent'anni nei quali avrebbe errato di deserto in deserto a sconto dei suoi peccati.
Qui i vecchi raccontavano strane usanze ancora saltuariamente in vigore - seppure al tramonto - nel secolo scorso. Usanze che ricordavano la paganità più remota e confermerebbe la tesi secondo la quale il culto di santa Maria Maddalena - la santa che vive solitaria nei boschi, abitando grotte, bevendo l'acqua "serenella" - si sarebbe gradualmente sovrapposto al culto di divinità femminili silvestri, secondo la strategia evangelizzatrice di cristianizzare luoghi, riti e costumi pagani, anziché distruggerli.
L'oratorio ricostruito sul Valestra
Proseguendo ancora sull'antica strada verabolense, giungiamo a un quarto luogo dove la Maddalena ha un culto non meno famoso e non meno antico di quello del Ventasso: il monte Valestra.
Sulla vetta, a 935 metri di quota, accanto a un inghiottitoio carsico chiamato la “grotta dei Manodori” (o, più popolarmente, la grotta del diavolo), sorge l'oratorio alla santa. Il culto maddaleniano è ben caratterizzato dal luogo: la grotta; al suo esterno il sasso sul quale, a imitazione della penitente, i devoti si inginocchiano per implorare la guarigione dell'anima e quella di vari mali del corpo; la solitudine, il deserto, la vista che spazia a perdita d'occhio sui quattro angoli del mondo.
Il Tiraboschi attesta l'esistenza sul monte di un oratorio con eremo già nel 1337, il che rende difficile immaginarlo come tardiva “emanazione” del Ventasso. L'oratorio attuale ha invece date ben precise: costruito nel 1630 a seguito della famosa peste; ripetutamente restaurato per non lasciarlo in balia del terreno instabile della vetta; ridotto a rudere negli anni '70 dai soliti vandali; restaurato a nuovo nel 1977 da don Giovanni Palazzi.
Ricche di folclore le manifestazioni di fede che circondano il 22 luglio. La sera innanzi un grande falò annuncia la festa alle sottostanti vallate di Secchia e Tresinaro. Il mattino, col fresco della buonora, frotte di fedeli risalgono il monte accampandosi nelle macchie che circondano l'oratorio, in attesa delle messe. Da una ventina d'anni la Pro Loco collabora alla festa ripulendo sentieri e spiazzo, allestendo una cucina campale che somministra pastasciutte e salsicce in abbondanza, curando il trasporto di anziani con appositi fuoristrada.
Oltre il folclore
I parroci han sempre detto che c'è fede autentica attorno al culto di santa Maria Maddalena. Don Trentino Simonazzi ne era tanto convinto da dedicarle la nuova chiesa di Busana, la più vicina alla gente, in mezzo al paese.
Le salcicce che sfrigolano sugli spiedi tra una messa e l'altra possono a prima dar fastidio. Ma, a ben pensarci, la festa ha anche il momento dello stare insieme per gioire del cibo e della bevanda che ristorano le forze dopo la lunga salita.
Don Giovanni Palazzi, che a settantacinque anni risaliva ancora il Valestra a piedi, chiedeva moderazione ed equilibrio; poi, seduto sull'erba, pane e salame casereccio in mano, il fiasco di vino appoggiato alle radici di un carpino, era il primo ad offrire tanta semplice convivialità ai monsignori cittadini.
«Non si dica - affermava - che gente poco avvezza a calpestare la soglia della chiesa parrocchiale vada pellegrina a Santa Maddalena solo per folclore. Spesso il folclore è una maschera; il volto vero è sotto. Anche se son tipi che (come si suol dire) il terremoto non coglierà mai in chiesa, sulla cima di quei monti sanno di ritrovare la memoria di Dio».
Folclore e fede non contrastano. E c'è chi vi fa pasqua anche a fine luglio.
Giuseppe Giovanelli
(Da “La Libertà”, 27 luglio 1996)
Grazie per le notizie sempre molto interessanti!
Angela Pietranera