Le letture di questa domenica rappresentano un salto di qualità nel cammino che la liturgia ci offre in questo tempo pasquale; se infatti le scorse domeniche erano volte a mostrarci gli avvenimenti successivi alla resurrezione di Gesù (e i conseguenti primi passi della Chiesa primitiva), i brani odierni sembrano voler trasmettere l’eredità ultima lasciataci dalla resurrezione di Cristo, che ricapitola in sé tutto il suo ministero.
Nella prima lettura continua il racconto della missione evangelizzatrice di Paolo e Barnaba. Di questa narrazione c’è un dettaglio da tenere in considerazione: i due discepoli, confermando nella fede alcuni convertiti, li ammoniscono che dovranno «entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Questo è un punto su cui è bene riflettere. Le comunità dei primi cristiani dovettero affrontare sofferenze, violenze, perfino persecuzioni per dare testimonianza di Cristo risorto (e molti cristiani devono affrontarle ancora!). In effetti, la resurrezione di Gesù non elimina come d’incanto le sofferenze che la Chiesa subisce. Questo significa che la resurrezione non è poi così decisiva?
La risposta a questa provocatoria domanda è contenuta nel brano della seconda lettura, dove viene profetizzato che il Signore, abitando insieme agli uomini, «asciugherà ogni lacrima dai loro occhi». Ciò significa che qualunque sofferenza, anche la più profonda, sarà sanata nella Gerusalemme Celeste. È questa la grande speranza di ogni cristiano: l’obiettivo di partecipare alla comunione dei santi in cielo e la promessa di una gioia senza fine al cospetto di Dio. Ma come poter raggiungere questo obiettivo? È nel vangelo che troviamo la chiave di lettura dei brani di oggi. Contrariamente alle domeniche precedenti, il brano odierno è ambientato durante l’ultima cena, quando Gesù espone ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo quello che potremmo definire il suo testamento spirituale.
Il tema dei primi versetti del vangelo è la gloria: non certo quella che noi comunemente intendiamo (successo, fama, potere…), ma il compimento della missione di Gesù sulla terra, ossia il suo sacrificio estremo per la salvezza degli uomini. È interessante notare che non si parla di una gloria futura, ma di una gloria che è già attuata («Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato e [Dio] lo glorificherà subito»). Proprio durante l’ultima cena la gloria di Cristo è giunta al compimento, poiché Egli ha accettato di subire la passione e la morte, conseguenze del tradimento di Giuda (che sappiamo essere appena uscito dal cenacolo, come se avesse rifiutato la luce di Cristo per avventurarsi nelle tenebre del peccato).
Ma il fulcro del vangelo è rappresentato dal “comandamento nuovo” che Gesù affida agli apostoli: «Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri». In queste parole Gesù indica ai discepoli e a tutti noi la strada maestra da seguire per essere suoi veri imitatori: abbandonarci al suo amore infinito e attingere da esso. Così facendo daremo quello che abbiamo ricevuto; essendo stati amati da Cristo al punto da avere il suo sacrificio in pegno per la nostra salvezza, anche noi dobbiamo provare verso tutti i fratelli (senza distinzione alcuna) lo stesso amore. Un cristiano che non sa amare, che non sa vivere questo cammino d’amore incondizionato non è un cristiano autentico. Chi invece sarà in grado di seguire l’esempio mirabile di Cristo, saprà essere strumento di diffusione dell’amore di Dio nel mondo.
Buona domenica!
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