Home Cultura “Vitello d’oro” 2022: Mosè Castagni, un artista a 360 gradi

“Vitello d’oro” 2022: Mosè Castagni, un artista a 360 gradi

156
0

Il "Vitello d’oro” è il riconoscimento postumo con il quale la Croce Rossa di Toano vuole premiare cittadini che in vita hanno acquisito particolari meriti, persone quindi degne di riconoscenza e di essere portate a modello.

Il fine non è tanto, o solo, quello di celebrare le loro virtù, ma anche e soprattutto di mantenerne viva la memoria per non dissipare il patrimonio del loro prezioso esempio.

Domenica 1 maggio 2022, al Cavolaforum, a Cavola di Toano è stato consegnato dal presidente della Croce Rossa di Toano, Mario Ferrari e dal sindaco Vincenzo Volpi, ai familiari di Mosè Castagni, Don Raimondo Zanelli, Paride Ferrari, Alberto Loris Ceccati e Giuseppe Lugari, accompagnati dalle note del coro Voci lassù dopo la messa celebrata da don Giancarlo Bertolini e  don Alpino Gigli.

In questo link potrete vedere il video della diretta fatta quella sera.

Conosciamo oggi Mosè Castagni, nei prossimi giorni presenteremo anche gli altri insigniti. Testi tratti dal libretto edito dal Comune di Toano e Croce Rossa sezione Toano, stampato da La Nuova Tipolito.

****

Mosè Castagni

Mosè Castagni nasce a Toano il 19 ottobre 1922,  si spegne a Toano a 97 anni il 28 aprile 2020. Primogenito di nove figli. Ancora giovane impara il mestiere di calzolaio, incaricato di “calzare” (così si diceva a Toano) i componenti della famiglia. Si ricordano le robuste scarpe chiodate e i sandali ricavati da copertoni di gomma (dovevano durare!).
A 19/20 anni chiamata alle armi, con destinazione la Sanità. Partì nel gennaio del 1942 e fu congedato nel maggio del 1944. Finita la guerra riprende la vita civile. A causa di un incidente subisce l’amputazione della mano destra: con costanza e pazienza riabilita la mano sinistra alle diverse funzioni. Scopre particolari attitudini e sensibilità per la musica e per l’arte.
Suona magistralmente l’organetto a bocca, col quale allieta le feste nelle borgate locali. Inizia i primi rudimenti del disegno e della pittura. Amante della fotografia, con una rudimentale macchina fotografica “a soffietto” inizia la ricca ricerca fotografica, che approfondirà col tempo.

Con forza di volontà consegue la licenza elementare in privato, seguendo le lezioni della maestra Maria Cappucci di Codesino. Per un certo periodo imprecisato fu impiegato all’ufficio di collocamento, col compito di indirizzare al lavoro (in quello stesso periodo l’AGIP cercava operai).

Per la sua forte personalità e rettitudine, era considerato “il saggio”, punto di riferimento per famigliari e conoscenti.

In parrocchia, con l’Arciprete Don Giorgio Canovi si instaura un rapporto di stima, fiducia e lunga collaborazione, tanto che, su proposta del Don, ha origine il noto “Baracchino” – cartoleria – giocattoli – “Da Mosè”.

Collabora fattivamente con tutti i Parroci successivi, incaricato di portare la Comunione a domicilio ad anziani ed ammalati. Sempre disponibile, riceveva scolaresche, studiosi e chiunque volesse conoscere le vicende della storia nazionale e locale. Con altrettanta disponibilità metteva a disposizione pure la ricchissima documentazione delle sue ricerche fotografiche, delle quali particolarmente preziosa quella sui fiori della nostra montagna.

Mosè, venuto a mancare il 27 aprile 2020, è il personaggio ideale a cui si addice perfettamente questo attestato, di stima e riconoscenza: per i meriti da lui acquisiti nel promuovere di Toano consapevolezza, storia, arte e cultura. In sintesi Mosè ha il merito di aver coltivato e manifestato un grande amore per il suo paese, celebrandolo con la fotografia e la pittura, con la narrazione e con ogni altra sua dote.
A lui il grande e particolare pregio di aver prodotto e raccolto una gran dovizia di immagini, di svariate opere e testimonianze, costituendo una vera e propria memoria storica di Toano e dell’appennino.
Il pittore Mosè

Mosè, artista e vero e proprio pittore,

Dell’articolo, che riprendiamo per gentile concessione dalla rivista “Tuttomontagna”, nel quale si descrivono le doti artistiche dei fratelli Vezio, Mosè e Maria Castagni, riproduciamo la parte riferita al Mosè pittore.
Qui ricordiamo che anche i quadri della “Via crucis” nella chiesa parrocchiale di Toano sono opera di Mosè: la troppa modestia gli impedì di firmarli. Questa sua opera la dobbiamo all’intelligenza del Parroco, l’Arciprete Don Giorgio Canovi, che preferì valorizzare e privilegiare l’arte di un suo parrocchiano, semplice e modesto, piuttosto che ricercare il noto artista che viene da fuori: giusto per non assecondare il noto proverbio “Nemo profeta in patria”.
La carrellata sui fratelli Castagni continua con Mosè pure lui artista e pittore vero e proprio. A differenza del fratello Ezio, Mosè lavora con colori ad olio, pennelli e tela, e crea delle “fotografie” di paesaggi, vedute ed ambienti tipici della zona montana.
Tramonti, paesaggi invernali, borghi, nature morte, fiori e piante del nostro appennino sono i soggetti che Mosè predilige per le sue opere.
Per ciò che riguarda il suo stile, il terzo dei Castagni da noi intervistato usa una tecnica pittorica che si può definire personale, lavorando, sin da giovane, come autodidatta e raggiungendo, in circa cinquanta anni di esperienza e lavoro, la “modesta” cifra di un migliaio di opere eseguite.
Numerose, ovviamente, sono state le manifestazioni e le mostre cui ha partecipato, in provincia e in tutta la regione. Vanno menzionate Serramazzoni (Modena) e soprattutto Cento (Ferrara), dove Mosè espose alcune delle sue opere ricevendo apprezzamenti e segnalazioni importanti da parte di famosi critici d’arte. I lavori esposti a quella mostra furono poi pubblicati, assieme a quelli di altri artisti, in un volume.
Oggi Mosè, approfittando del tempo libero di cui dispone (i paesani lo ricordano per la sua disponibilità, ai tempi in cui gestiva una cartoleria), dipinge ancora, mantenendo intatto lo stile tipico del pittore che vede il soggetto da ritrarre con occhio “verista”: i piccoli dettagli, le sfumature, i giochi di luce e le ombre sono i protagonisti e i particolari delle tele di Mosè, così piacevoli alla vista dell’occhio profano ed oggetto di studio per chi è esperto di arte.
Oltre alla pittura, Mosè coltiva altri interessi, quali la fotografia e la raccolta di cartoline antiche. Possiede infatti circa quattromila tra foto e diapositive raffiguranti angoli nascosti dell’Appennino, ripreso nelle sue diverse vesti stagionali, e mille cartoline antiche della zona montana, raggruppate con una documentazione fotografica dei monumenti ed antiche abitazioni del comprensorio (a partire dagli anni 1948-49), che fanno di tutto l’insieme una raccolta davvero unica per la cultura locale.

***

Toano perde un artista a 360 gradi.
Il mondo visto con gli occhi di Mosè

Uno dei quadri della “Via Crucis” nella chiesa parrocchiale di Toano.

Mosè Castagni, memoria storica del paese di Toano, si è spento a 97 anni, 35 dei quali passati dietro il bancone della cartoleria sulla piazza del paese, al fianco della moglie Tilde Gazzotti.
Mosè era appassionato di fotografia, ha documentato i cambiamenti del paese e gli angoli più belli, facendone cartoline che ora sono ambite dai collezionisti. Non solo, nonostante gli mancasse una mano, persa in un incidente occorsogli in giovane età, era un artista del pennello e della spatola. Con i suoi colori vivaci e uno stile personalissimo ha abbellito le pareti di tante case di toanesi, comprese le navate della chiesa paesana, impreziosite dalla sua personale Via Crucis dai colori sgargianti e assolutamente moderni, nonostante siano passati molti anni dalla sua realizzazione, che non ha neppure firmato. Schivo e riservato, aveva una visione del bello che trovava negli angoli più remoti e nascosti.
L’attrice Ivana Monti l’ha ricordato in un messaggio, inviato ai figli Tiziano e Tarcisio, con queste parole: “Sono grata all’indimenticabile Mosè, l’artista che ha fermato nei suoi quadri l’anima di un Toano tanto amato”.
Effettivamente le sue opere hanno descritto meglio di qualunque altro la bellezza del paese. Con l’amico Roberto Ferrari aveva documentato tutte le maestà sparse nelle frazioni, immortalandole su pellicola che lui stesso sviluppava. Erano soprattutto la natura e le antiche pietre, piccoli borghi e contrasti fra tramonti infuocati e albe cerule i suoi modelli preferiti.
Per molti anni ha anche fatto parte dell’amato coro Val Dolo, cui non prestava solo la voce, ma ne arricchiva, con la sua arte, ogni iniziativa, creando veri capolavori come il fondale del trentennale del Festival dell’Appennino reggiano, o le locandine promozionali, sempre realizzate a mano e con uno stile che risulta ancora moderno nonostante siano passati più di cinquant’anni.
Molti sorridono ancora al ricordo di don Giorgio che mandava i monelli del paese da Mosè a comprare “l’olio di gomito”.
Mosè è riuscito, con le immagini non solo a essere memoria, ma a trasmettere alle generazioni future quello che nessuno potrà più far tornare, per questo la sua opera è così preziosa.
Ora speriamo che si possa creare uno spazio dove raccogliere e rendere fruibile tutto il tesoro che ci ha lasciato; lo merita lui e lo meritano i tanti che hanno amato il suo personale modo di vedere il mondo.
(Doris Corsini)
Per gentile concessione della rivista Tuttomontagna
***

Mosè Castagni e la sua campagna di Russia
Ci dissero che saremmo andati al mare.

Il soldato Mosè inquadrato nella Compagnia Sanità.

La chiamata alle armi giunse con la Befana del ’42.
La perdita di due falangi lo promosse becchino: seppellì 400 morti in pochi mesi.
La ritirata e la volontà di uscire dall’inferno Mosè Castagni, conosciuto e stimato cittadino di Toano, che per molti anni ha gestito la cartoleria nel comune montano, noto anche come valente pittore, alla bella età di 86 anni ha sentito il bisogno di raccontare la sua giovinezza, cominciata col regime fascista, segnata dalla guerra e terminata con la fine della seconda guerra mondiale. Per motivi di spazio prendiamo in esame soprattutto la parte riguardante la campagna di Russia.
“Quella del 1922 doveva essere la classe della ‘vittoria’, la prima nata, cresciuta ed educata dal Fascismo. Preparata per diventare il grande esercito dell’Impero. Mi ricordo che verso la metà degli anni Trenta ci obbligavano a partecipare a quello che allora veniva chiamato il premilitare, ossia una serie di esercitazioni dove si imparava a marciare assieme, ad ubbidire in nome della causa del fascismo.
Io odiavo queste cose, anche perché mi sottraevano ai lavori di casa, fatto grave in una famiglia povera e numerosa come la mia. Dovevamo essere la classe della Vittoria, ma tutte quelle parole e quella retorica contenevano fumo e odore di miseria.
La chiamata alle armi giunse come un regalo della Befana il 6 gennaio 1942. Il 17 dello stesso mese partii per Reggio Emilia, dove appresi, in modo sommario, la mia destinazione: la 4^ Compagnia Sanità. Nella caserma a Verona io e gli altri commilitoni fummo accolti in un’enorme camerata, molto simile ad una stalla coi suoi comodi giacigli, teli da tenda pieni di paglia posati sul pavimento. Si dormiva praticamente per terra.
La consegna delle divise non fu avara di sorprese, e a tutti diede in dote scarpe e cappotti di misura sbagliata. Il soggiorno in quel luogo durò fortunatamente solo qualche giorno, poi fummo inviati a San Bonifacio, sempre nel Veronese, dove ci sistemarono in un edificio in precedenza destinato all’ammasso del grano, struttura grezza e fredda in cui dormivamo in un unico grande stanzone; il rancio veniva preparato nelle cucine costruite alla bell’e meglio sul posto e si consumava nelle gavette, quasi sempre in piedi.
L’addestramento, consisteva soprattutto di lunghe marce ed interminabili guardie, era particolarmente adatto ad abituarci alle scarpe, ma soprattutto non prevedeva quasi mai l’uso delle armi,
forse perché già si presumeva l’utilizzo della Compagnia Sanità, quella di cui facevo parte, composta da barellieri e addetti al servizio medico negli ospedali di riserva dietro la linea del fronte.

In quel periodo appresi che mia sorella era ammalata e che sarebbe stata operata. Riuscii ad ottenere solo 48 ore di licenza che a stento mi bastarono per visitare la mia famiglia a Toano e mia sorella all’ospedale di Scandiano. In quell’occasione dovetti percorrere a piedi tutta la strada da Veggia a Toano, a passo veloce per non perdere tempo, e quando arrivai sopra all’ultima salita, vicino a Villa Righi, mi lasciai crollare a terra completamente stremato.
A San Bonifacio rimanemmo per poco meno di sei mesi e solo il campo di addestramento svoltosi a Soave servì a rompere la monotonia e a farci scoprire i vini pregiati di quella zona. Ai primi di luglio cominciò a girare la voce di un’imminente partenza e continuammo a ignorare la destinazione precisa anche quando in modo emblematico i nostri superiori ci dissero che saremmo partiti per un bellissimo luogo vicino al mare.
Ricordo che a San Bonifacio, coi pochi soldi che mio padre riusciva a mandarmi comprai un crocefisso. Lo misi nel taschino della giacca militare, dicendomi che con quello sarei dovuto tornare a casa dai miei cari; sarebbe rimasto con me in quella tasca per tutto il tempo del servizio militare.
La ‘vacanza’ cominciò sul treno. Stipati su vagoni merci, ci avviammo verso l’Austria, poi il tragitto stesso ci rivelò la nostra meta: il fronte russo. Quella consapevolezza fu come un pugno nello stomaco, il primo inferto dagli eventi bellici. Il giorno in cui me ne resi conto rimasi molto scosso, e come molti altri miei compagni, non riuscii a dormire per tutta la notte… Mano mano che il treno andava avanti,
cominciavano a farsi vedere i primi segni della guerra. Giunti in Polonia, non ricordo precisamente la località, il treno si fermò.

Poco distante dalla strada ferrata, notai un muro orrendamente denudato da una moltitudine di pallottole; era stato usato per le esecuzioni dei nemici dei tedeschi (i nostri alleati), che fucilarono migliaia di persone colpevoli di essere ebrei o polacchi. Di loro restava soltanto quel muro scalcinato. Il 23 luglio, carichi di pidocchi, stremati dal viaggio logorante, arrivammo a Dnipropetrovs’k, nel sud est dell’Ucraina”.
Da questa cittadina i soldati proseguirono in marcia verso la zona loro assegnata. Oltre che faticoso, per Mosè questo viaggio fu disgraziato, perché incorse in un grave incidente.
“Non ci avevano avvertito a dovere, i nostri comandanti, dei pericoli cui saremmo andati incontro. Soprattutto la mia compagnia non aveva mai utilizzato armi ed esplosivi.
Ci fermammo in un villaggio, per dormire; quasi tutti eravamo usciti per fare un giro, per distrarsi…
Eravamo ancora lontani dal fronte ma non dal pericolo! Fu infatti un residuo di esplosivo, probabilmente un detonatore, che mi scoppiò in mano, facendomi perdere 2 falangi della mano sinistra. Mi fasciarono e solo dopo parecchio tempo i medici arrivarono per curarmi. Fu un momento drammatico, mi sentivo smarrito!”

Mosè restò nell’ospedale da campo per circa quindici giorni, in seguito fu mandato a raggiungere i suoi compagni a Voroscilovgrad. Giunto lì gli venne assegnato un servizio presso il cimitero militare e probabilmente non fu mandato al fronte come barelliere per via dell’infortunio alla mano.
“Arrivato mi assegnarono alla squadra che doveva costruire e, in seguito, lavorare nel cimitero militare”.

Mosè con un commilitone nel cimitero di Voroscilovgrad.

A Voroscilovgrad, oggi Lugansk, c’è ancora un cimitero monumentale misto italiano e tedesco dove sono sepolti 202 fra bersaglieri, fanti e alpini. Fra il 1941 e il 1942 nella zona c’erano due importanti centri ospedalieri in cui venivano ricoverati i feriti del fronte russo; nel cimitero sono sepolti i resti di alpini della Julia e della Tridentina, di bersaglieri, di fanti della Cosseria.
“Con un altro commilitone seppellimmo più di 400 morti in pochi mesi. Il lavoro era penoso, la maggior parte di essi era stata recuperata da squadre apposite e da un cappellano, che passavano lungo le vecchie linee del fronte per recuperare le salme. Inizialmente esse arrivavano con la cassa, e perlopiù erano identificate. Il cimitero era misto, italiano e tedesco.
Ogni lato della croce contrassegnava due salme, una italiana e dall’altra parte una tedesca, disposte entrambe con la testa verso la croce stessa. Per ricordare la scellerata alleanza che Mussolini aveva stipulato con Hitler! Col passare del tempo però i lavori si fecero sempre più caotici e sempre più spesso arrivavano cadaveri anonimi e senza bara. Ciò rendeva quell’attività ancora più incresciosa.
Il lavoro non presentava certo i pericoli del fronte, non si era dovuto, fortunatamente, ricorrere alle armi, ma ci metteva davanti l’abominio generato dalla guerra. La bestialità che rivestiva le salme di quei poveri disgraziati scuoteva e al tempo stesso annullava le coscienze: l’unica via di fuga era l’atroce abitudine a quell’orrore. Uno degli ultimi lavori nel cimitero resterà per sempre nella mia memoria. Il cappellano mi chiese di disseppellire una salma di cui non era certa l’identità; l’avevo sepolta all’incirca due settimane prima. Ricordo la fatica e lo sgomento che mi presero, poiché il corpo era stato inumato senza cassa, avvolto solo da un lenzuolo, e il lavoro non poteva essere fatto solo con la pala. Fu con le mani che lo dissotterrai, con le mani lo sbendai portando alla luce quel viso, quell’espressione che ancora adesso continuo a vedere quando mi sveglio di notte e mi sovviene di pensare a quel periodo. Il cappellano guardò la salma per qualche istante, le tolse la catenina che aveva al collo, me la consegnò (non so
dove sia finita) poi se ne andò. Io seppellii per la seconda volta quel corpo senza sapere chi fosse…”.
La miseria della popolazione fece da sfondo alla permanenza dei soldati in Ucraina. Nelle città e nei villaggi restarono solo donne, vecchi e bambini piccoli, in quanto tutti gli uomini erano partiti per contrastare l’invasione dell’Asse.
“Ogni giorno, spinti dalla fame, si presentavano al campo molti disperati, che contavano di poter ottenere i resti, magri, del rancio. Ricordo in particolare alcuni personaggi: una vecchia, gobba, che si presentava ogni giorno, e un ragazzino di circa dieci anni cui diedi del cibo e che mi regalò in seguito una piccola lente d’ingrandimento che conservo ancora. In generale la popolazione ucraina non aveva atteggiamenti ostili nei confronti degli italiani, mentre era forte l’odio per i tedeschi, che si erano macchiati di efferati delitti e stragi anche tra la popolazione civile. Ricordo che ogni tanto si andava a mangiare in qualche isba, le tipiche case locali, in cui le donne ci offrivano del minestrone di verdure”.
L’inverno 1942-43 segnò la svolta per la spedizione russa, il tremendo gelo e la riscossa russa portarono alla disfatta delle forze dell’Asse.

Maggio 1942 – Mosè con Dallari Geremia

“L’arrivo dell’inverno comportò un brusco rallentamento delle attività a cui ero assegnato. Il termometro andava ben al di sotto dei -20° e arrivava a congelare la terra per quasi un metro di profondità, e solo raramente era possibile scavare. Ricordo bene il Natale del 1942. Io e Luigi Ferrari, mio commilitone di Baiso, ci eravamo costruiti una piccola stufa di mattoni, e non avevamo nulla da bere. Non potevamo andare a chiedere nel paese, in quanto la resistenza russa premeva sempre più e gli alti comandi ci avevano messo in guardia dai rischi di avvelenamento anche da parte dei civili. Brindammo forse con un goccio di vino datoci per l’occasione, ma poi dovemmo uscire e prendere della neve fresca, che scongelata ristorò il nostro Natale.
Gennaio poi fu un mese di frenetica attesa. La disfatta era imminente e le attività venivano svolte con un orecchio sempre pronto a cogliere l’ordine di ritirata, che giunse il 23 gennaio. All’adunata c’erano più di mille persone, che si misero in marcia nel primo pomeriggio, sotto una tormenta di neve. Con l’aiuto di un altro soldato cercammo di mettere insieme una slitta per portare gli zaini, ma costruita in fretta e furia durò solo pochi chilometri.

Partimmo dunque con pochi viveri, io con solo un tozzo di pane nella tasca della giacca. Nonostante i magazzini fossero molto forniti, non ci fu alcuna distribuzione di viveri per far fronte al viaggio.
Partimmo a piedi sotto la neve che cadendo confondeva la strada. Mentre arrivava il buio, già nelle prime ore del pomeriggio molti si erano fermati a pernottare in qualche isba lungo la strada. Io invece continuai, incautamente, spinto dal desiderio di uscire da quell’inferno, fino a ritrovarmi completamente solo, al buio, senza riferimenti. Cominciai ad avere paura ed accelerai il passo. La fortuna volle che raggiungessi un ufficiale della sussistenza con due soldati al seguito, cosa che mi sollevò notevolmente il morale. Con essi riuscimmo a farci ospitare in una casa, al caldo.

Il giorno dopo raggiungemmo il comando tappa. Da lì ripartimmo.

Il viaggio di ritorno fu un alternarsi di attra-versamenti della steppa a piedi e di tragitti in treno. Spesso questi treni si fermavano in mezzo alla campagna senza ripartire, costringendoci a prose-guire nuovamente a piedi ancora attraverso la steppa o lungo strade piene di fango. Più di una volta incrociammo i tedeschi, che ci guardavano di traverso mentre se ne andavano a nord, convinti ancora di conquistare il mondo, ma più spesso lungo le strade incontrammo dei cadaveri. Semisepolti dalla neve spuntavano brandelli dei resti di soldati ma anche di civili, forse uccisi dai tedeschi oppure dall’inverno. Noi non potevamo che assistere e proseguire, sapendo che per loro non c’era più nulla da fare. Non riesco nemmeno io a dare una misura di quanto camminai. Anche i tragitti in treno non furono una passeggiata: i vagoni merci erano di solito dotati di una stufa, che nonostante fosse rossa dal calore aveva i bulloni di supporto ricoperti di brina! I nostri moschetti erano pericolosi: quando si scendeva dai vagoni, il rischio che la pelle della mano restasse attaccata alla canna congelata del fucile era reale per i molti che non possedevano dei guanti. Arrivai a casa a Pasqua, nel marzo del ‘43”.

Mosè tornò in servizio dopo un mese di licenza a Lignano Sabbiadoro nel campo degenze, dove venivano portati i feriti meridionali, che vista la nuova situazione, con gli angloamericani stanziati nel sud del paese non potevano tornare a casa loro. Era ancora a Lignano l’8 settembre, quando ascoltò il messaggio di Badoglio che annunciava l’armistizio. In seguito fu mandato a Trieste, dove lavorò come assistente di un ufficiale dell’esercito. In seguito ad una malattia ai polmoni, curata nell’ospedale di Trieste, fu congedato alla fine del maggio ’44.

Il ritorno a casa non fu come il nostro Mosè si aspettava, ad accoglierlo ci fu la guerra partigiana… Ma questa è un’altra storia.

Chi scrive ringrazia vivamente Mosè Castagni per la sincerità, la libertà e la pazienza con cui gli ha riportato la sua esperienza.
(Andrea Costi)

Per gentile concessione della rivista “Tuttomontagna”