Già lo dicevano i partigiani nei primi anni della liberazione: “È stato difficile combattere per riconquistare libertà, democrazia, ragionevolezza, pacifica convivenza tra persone, associazioni e stati. Ma forse più difficile sarà mantenerle nei decenni a venire”.
Si poneva cioè fin da subito il problema di una “memoria” della Resistenza che, lungi dal restare un racconto libresco, si costituisse come un principio operativo idoneo a guidare la vita dell’Italia che aveva “voltato pagina” alla dittatura, alla violenza, all’ideologia di partito.
A questo scopo si era costituita a Roma, il 5 aprile 1945, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia (Anpi) il cui statuto, in 34 articoli, oltre ai dovuti riconoscimenti e onori ai combattenti della Resistenza, chiedeva ai suoi aderenti di “battersi affinché i princìpi informatori della guerra di liberazione divengano elementi essenziali nella formazione delle giovani generazioni” (art. 2, comma i).
Accadde così che anche a Reggio i combattenti della 284a Brigata fiamme verdi “Italo”, deposte le armi, il 2 giugno 1945, entrarono a far parte dell’Anpi la cui sezione reggiana, nel giugno 1945, era già pienamente funzionante; gestiva una mensa del partigiano in via San Rocco 3, organizzava gare sportive di calcio, indiceva un concerto al Teatro municipale.
Belle apparenze, ma, sotto sotto, nell’Anpi onnicomprensiva dell’estate/autunno 1945 cominciavano a riemergere quegli stessi contrasti che dodici mesi prima avevano costretto gli “uomini di don Carlo [don Domenico Orlandini] e di don Pasquino” a lasciare le Brigate Garibaldi e a fondare la Brigata fiamme verdi, distinta per metodi di lotta, organizzazione apartitica, disciplina interna e anche – caso unico nel panorama locale– per stato giuridico.
La Brigata fiamme verdi, infatti, veniva subito riconosciuta dal Governo libero di Roma come “1° Battaglione fiamme verdi del Cusna” del Regio esercito italiano. E, ciò nonostante, militarmente coordinata con le altre brigate partigiane mediante il “Comando unico Brigate Garibaldi e fiamme verdi”.
Nel clima di una violenta intolleranza
Rimando ai giornali del tempo il lettore, che voglia oggi ripercorrere in diretta quei primi contrasti. Qui mi limito al quotidiano Reggio Democratica, organo – dal 25 aprile al 1° dicembre 1945 –, del Comitato provinciale di liberazione nazionale. In pratica, una bacheca sulla quale ogni componente del Comitato poteva mettere i suoi comunicati.
Ma bacheca scomoda perché non si potevano evitare le risposte, sempre più decise, di chi non condivideva la linea del partito dominante (Pci) e che, come già durante la Resistenza, avrebbe voluto sotto la sua bandiera l’intero partigianato, giostrando sull’equivoca identificazione tra gli aggettivi unico e unitario.
Giorgio Morelli – colui che scrive sul numero 1 di Reggio Democratica, l’articolo più sentito e più rilanciato nelle antologie resistenziali (“Ed ho pianto”) – provoca le prime irate reazioni di Didimo Ferrari “Eros”, segretario provinciale dell’Anpi: “Piuttosto che parlare con voi preferirei darvi un colpo di rivoltella”, dice a Morelli, che poi i colpi di rivoltella (sei) li riceverà davvero, da “ignoti” la sera del 27 gennaio 1946 e, di conseguenza, ne morirà il 9 agosto 1947.
L’Anpi di Eros se la prende in modo particolare con il professor Pasquale Marconi, già suo vice nel Commissariato generale del comando partigiani.
Nei suoi pochi scritti sulla Resistenza, Marconi, spiega il perché del dissenso da questa Anpi:
– ricorda che i cattolici e, in genere i non comunisti, hanno combattuto “per abbattere una tirannide faziosa coltivando in segreto l’ansia di ritornare alle case per riprendere, deposte le armi gloriose impegnate per dolorosa necessità, il lavoro in un’Italia libera, civile, disciplinata e laboriosa”;
– denuncia l’involuzione di “un partigianesimo che è la degenerazione del movimento ideale di ribellione alla prepotenza nazista e fascista. Noi intendevamo abbattere il sistema; molti invece dimostrano chiaramente di voler abbattere solo gli uomini per rimpiazzarli nelle prebende, nelle gerarchie, nei dispotismi”;
– richiama la grave situazione reggiana dove “si vive in un’atmosfera di prepotenza e di minaccia non inferiore a quella fascista. Prima si minacciava in nome della Patria. Oggi si minaccia in nome del popolo: sempre arbitrio, violenza, sopraffazione”.
Le cronache di quel primo dopoguerra riportano fatti di intolleranza politica e religiosa che il prefetto della Liberazione, Vittorio Pellizzi, attribuisce al Pci guidato, in sede provinciale, dal trio Nizzoli, Ferrari e Azzolini. Sono noti gli assassinii di Farri, Lui, Vischi, Mirotti, don Pessina, Morelli, Ferioli; meno noti episodi di intimidazione quali – per citare i più periferici – l’assalto presso Felina ai camion che, 1947, riportavano a casa i parrocchiani di Cervarezza e Busana al termine del secondo Congresso eucaristico diocesano (diversi i feriti ricoverati in ospedale); il lancio di una bomba a mano contro la canonica di Quattro Castella; la spedizione punitiva, guidata da Eros, che, nel novembre 1947, dopo la commemorazione dei partigiani uccisi a Legoreccio, con un camion carichi di ex partigiani comunisti si recava a Cola e qui, al grido di «morte ai reasionari» prendevano a manganellate tre attivisti democristiani, fra cui Bruno Ruffini (L’Era Nuova, 23 novembre 1947). Bruno era una delle guardie del corpo di Marconi che, discretamente perché non richieste dall’interessato, lo accompagnavano nei suoi comizi. Seguirà poi le campagne elettorali di De Gasperi in Abruzzo.
Dall’Alpe all’Alpi
Tra il 1946 e il 1947 la storia delle Fiamme verdi segnala diversi eventi che dicono della loro volontà di proseguire nell’azione unitaria degli ex partigiani, ma nello stesso tempo dell’impossibilità di farlo per le prese di posizione, più dittatoriali che egemoniche, dell’estremismo comunista.
Si segnala in particolare l’ordine del giorno di protesta delle Fiamme verdi di don Carlo contro l’“Anpi di Eros”: resteranno nell’associazione purché ci sia il loro giusto riconoscimento “di ideali e di sangue”, il rispetto per il professor Marconi “rappresentante ideale di tutti i veri partigiani”, l’immissione di loro rappresentanti in seno al consiglio direttivo dell’associazione e della redazione de Il Volontario della Libertà, organo dell’associazione.
Eros respinge in tutto l’odg delle Fiamme verdi e rincara la dose contro Marconi. La risposta di far luce sui delitti di Azor, don Iemmi, don Ilariucci, Menozzi e gli altri verrà interpretato da Eros come una denigrazione del partigianato intero.
Le Fiamme verdi e quanti non si riconoscono nel comunismo stalinista e titoista, cacciati dall’Anpi da Eros nell’aprile 1947, si stringono allora sempre più attorno a don Carlo iniziando anche formalmente quel progressivo distacco dall’Anpi che sfocerà, nel febbraio 1948, nell’Associazione liberi partigiani dell’Emilia (Alpe). Situazioni analoghe a quella di Reggio, infatti, si verificano anche a Parma, Modena, Bologna e, seppure in diversa misura, in tutte le province dell’Emilia.
Va notato la scelta dell’aggettivo liberi, coerente con l’accusa mossa all’Anpi di essere “infeudata ai partiti del blocco progressista”. L’esatta comprensione delle dinamiche politiche sottese rimanda alla lotta elettorale che si sta scatenando attorno alle elezioni politiche del 18 aprile 1948.
Il primo nome del comitato promotore dell’Alpe è, in sede regionale, il professor Pasquale Marconi: in sede provinciale, oltre allo stesso Marconi, sono Giuseppe Dossetti, don Carlo, Carlo Calvi di Coenzo, Remo Torlai, Giuseppe Zatelli, Ido Barchi, Ettore Barchi, Gottardo Bottarelli, Casto Ferrarini, Fiore Mercanti, Franco Pagliani, Ettore Davoli, Giulio Davoli, Giovanni Bassi, Davio Dandolo, Gianni Moratti, Bruno Montanari, Sante Zanichelli, Bruno Piacentini.
Non tutti della Brigata “Italo”, come si vede; e non tutti democristiani. Pur riconoscendosi tutti in una base di valori cristiani, non usano il termine “cristiano” che in quel momento richiamava il partito della Democrazia Cristiana. Il che dice il carattere inclusivo dell’Alpe, che tutti onestamente accoglie e da tutti gli iscritti ex combattenti è rispettata.
La sigla Alpe non dura che due mesi. Il disagio che ha indotto i partigiani non comunisti dell’Emilia a formarla è presente anche in altre regioni, soprattutto in Liguria, Toscana, Marche. Anche qui si hanno immediate adesioni all’Alpe, così che, il primo aprile 1948, i suoi dirigenti riuniti a Bologna ne comunicano la trasformazione in Alpi, dove la “i” significa “Italiani”.
Si afferma nel comunicato che l’associazione “è sorta per restituire al nome partigiano tutta intera la dignità che l’inflazionistico moltiplicarsi di tessere e riconoscimenti e il sistematico travisamento dello spirito della Resistenza hanno offuscato.
L’Alpi non è vassalla d’alcuno: non serve nessun partito o movimento politico perché vuole essere una pura e semplice associazione di partigiani, di qualunque tendenza e colore”. Ma chiarisce anche che “l’ALPI non è contro la politica, per questo non chiede ai partigiani la loro fede politica.
Ogni partigiano deve poter pensare e professare l’idea politica che più gli piace”. Con questa dichiarazione d’intenti, l’Alpi aderisce alla Federazione italiana volontari della libertà (Fivl) costituita da oltre un mese in campo nazionale e presieduta dal generale Raffaele Cadorna.
L’umanità che conduce alla vittoria finale
Lo stile della “memoria” che ha caratterizzato – e caratterizza tuttora – l’Alpi è quello stesso con cui, nei venti mesi della Resistenza i suoi iscritti hanno condotto la guerra al nazifascismo. Allora si diceva: “umanizzare la guerra”.
Cioè, combattere anche con le armi quando il momento lo richiedeva, ma senza odio, cercando di mantenere in stessi quei valori umani che sostanziano la vera libertà; e, possibilmente, aiutare il nemico stesso a ritrovarli.
Così vediamo, ad esempio, un Pasquale Marconi, disarmato, a giacca sbottonata, andare incontro al capitano Leibold armato fino ai denti, e sorprenderlo, e disarmarlo moralmente parlandogli delle bambole che deve portare alle sue bimbe.
Su La Penna clandestina don Carlo scrive che la vittoria della Resistenza non sarà una vittoria di armi contro armi, ma una risurrezione morale, una lotta per riscoprire nella propria coscienza i valori della pacifica convivenza, del rispetto degli altri, della pace operosa.
Ed ecco perché le celebrazioni dell’Alpi, secondo l’insegnamento del suo padre fondatore professor Marconi, più che un acrimonioso ricordo del male altrui, sono un inno al bene compiuto, tendono la mano al nemico di ieri e non pretendono da lui nessun pubblico spettacolare pentimento da strumentalizzare a fini elettorali e di partito.
Questa, in altre parole, è la laicità dell’Alpi voluta da don Carlo; è il terreno buono, fertile, ben arato, sul quale cade e fruttifica la parola del Vangelo. A chi si meravigliava di non vederlo propenso a usare in questo tipo di associazioni il termine “cristiana”, egli riteneva di trovarlo esclusivo, perché in quel frangente della storia diventava riferimento a un partito (la Democrazia Cristiana), mentre egli amava quella che oggi chiamiamo inclusività, fatta di rispetto, dialogo, accoglienza, di crescita in umanità e socialità. In altre parole: è l’umanità che conduce alla vittoria finale, non il mitra.
Attività dell’Alpi
Lo storico che oggi vuole ricostruire la storia dell’Alpi trova non poche difficoltà, ma fortunatamente non insormontabili. Il 14 aprile 1948, infatti, la tipografia cattolica Age, dove si stampavano La Penna e l’Era Nuova (settimanale della Diocesi), veniva distrutta dai “soliti ignoti”.
Gli stessi, il 14 luglio 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, distruggevano anche la sede dell’Alpi, con relativo archivio, gravemente sfregiato il ritratto di Aldo Dall’Aglio “Italo” (vicecomandante delle FFVV, medaglia d’oro al Valor militare della Resistenza), aggredito e malmenato per strada Eugenio Corezzola, direttore de La Penna.
Dal 1948 al 1955 Romolo Fioroni riscontra un vuoto nell’archivio dell’Alpi. Troppo facile presupporre un vuoto d’attività. A parte la difficoltà di ricostituzione della sede e, per quanto possibile, anche dell’archivio, nel 1949 don Carlo, per gravi esigenze familiari, era diventato parroco a Monzone e continuava, da lassù, con i limiti della nuova situazione, il suo accompagnamento all’Alpi.
Erano anche anni nei quali la stampa cittadina lasciava sempre meno spazio alle associazioni degli ex partigiani, preferendo magari mettere in risalto i nomi personali dei rispettivi rappresentanti che non l’acronimo dell’associazione stessa. Ma all’interno dell’Alpi il lavoro continuava intensamente.
Innanzitutto si lavorava per realizzare il progetto della cappella votiva delle Fiamme verdi sul luogo della battaglia della “Pasqua di sangue”, 1 aprile 1945, dove – a detta dello stesso Eros – le Fiamme verdi avevano dato il maggior contributo di lotta e di sangue (otto caduti).
Il luogo (Ca’ Marastoni) sorgeva proprio in parrocchia di Monzone. Non fu un’impresa facile, ma si riuscì a costruirla nel biennio 1965-1967 e ad inaugurarla il 25 aprile 1971. Qui, nel rispetto del suo desiderio, furono collocati i resti mortali di Giorgio Morelli, “il Solitario”, emblema degli ideali e della dedizione delle Fiamme verdi.
Qui, accanto al ricordo di don Pasquino Borghi (“il primo delle Fiamme verdi”) è posto anche il ricordo di “Valentina” (Nadia Guidetti) la giovane staffetta garibaldina caduta nella Battaglia di Pasqua. E dal 2014 riposano anche le spoglie di don Carlo. Sulle pareti del tempio – non a caso una chiesa – furono collocate le lapidi a ricordo di tutti i caduti della Brigata.
Ininterrotta, dal 1946 ad oggi, è la celebrazione annuale, a Cà Marastoni, della “Pasqua di sangue”, con un seguito di popolo che ben poche altre ricorrenze partigiane possono vantare. Sorprese i giornali che nel 1948, l’anno di più aspra contrapposizione tra la neonata Alpi e l’Anpi di Eros, la celebrazione venisse indetta unitariamente dalle due associazioni.
Era l’inclusività di don Carlo e Marconi. Scriveva Reggio Democratica: “Gli uomini della Resistenza, gli Italiani tutti saranno indubbiamente lieti che i valorosi combattenti della montagna si ritrovino uniti – al di sopra di ogni ideologia politica – per ricordare i loro fratelli caduti per un fine unico: la libertà”.
Ininterrotte furono pure, dal 1977 al 2014, la celebrazione annuale del ricordo di don Carlo a Pianzano e la partecipazione della rappresentanza dell’Alpi alle 10/20 celebrazioni annuali della Resistenza. Meritano di essere ricordati, a questo proposito, oltre a Romolo Fioroni, Terzo Comi e Secondo Castagnetti. Alto gradimento ha avuto, in questi ultimi anni, la “marcatura” del territorio delle Fiamme verdi, con l’apposizione di una croce e di una simbolica “alabarda” nei luoghi che hanno visto il sacrificio delle Fiamme verdi o dei loro amici e collaboratori. Iniziativa fortemente sostenuta dal presidente attuale commendator Elio Ivo Sassi e illustrata in un “tascabile” da Marco Zobbi e Chiara Guidarini dal titolo La via delle Fiamme Verdi.
Intensa è sempre stata anche l'attività editoriale e pubblicistica dell'Alpi non solo per ricordare le Fiamme verdi e i suoi esponenti più noti (don Pasquino Borghi, don Giuseppe Iemmi, Pasquale Marconi, Aldo dall'Aglio...) ma anche il clero martire, in collaborazione con la Diocesi e con i sacerdoti più impegnati nella Resistenza tra i quali don Nando Barozzi, don Angelo Cocconcelli, don Giulio Riva, don Luca Pallai, don Battista Guidetti. Ma questa attività meriterebbe un capitolo a parte.
Nel 1995, in collaborazione con la Diocesi, l'Alpi è impegnata per la grande Via Crucis della Riconciliazione conclusa con l'erezione, a cura dell'Alpi, della 14a stazione in vetta al monte Borello. L'attività pubblicistica ha raggiunto anche il campo nazionale con la trasmissione Rai La Via delle Canoniche; ma non quello cattolico per il "non ci interessa" opposto - incredibile, ricordava Fioroni nel 2004 - dal quotidiano Avvenire.
I rapporti con Apc e Anpi
Poco dopo l'Alpi, nasce a Reggio anche l'Associazione partigiani cristiani (Apc), fondata a Roma nel 1947. Le prime notizie sulla sua attività in quel di Reggio, riportate dalla Gazzetta di Reggio, risalgono al 1952. Essa era molto attiva in campo nazionale, come attestano i i suoi due primi convegni nazionali tenuti a Roma, ma a Reggio - lo ricorda Sandro Spreafico - era "fortemente minoritaria". Il seguito popolare, infatti, era legato ai partigiani delle Fiamme verdi o loro simpatizzanti ed era frutto del lavoro che l'Alpi conduceva all'interno dell'associazione e sul territorio dove più il partigianato d'area cattolica aveva operato,
Accadde cos' che tra il 1996 e il 1997 gli ultimi 18 tesserati dell'Apc chiesero di essere accolti (e per non pochi, come Giovanni Fucili, era un rientro) nell'Alpi mantenendo il ricordo del loro operato nell'acronimo associativo Alpi-Apc. A tutti appariva inutile mantenere in vita due associazioni dallo scopo pressoché uguale. Privatamente, poi, Fioroni osservava che la memoria non si rafforza moltiplicando le associazioni perché, in questo campo, uno più uno non fa due, ma soltanto "due poveri mezzi".
Grazie anche all'amicizia personale con il presidente Giacomo Notari, Romolo Fioroni rinsaldava anche una tranquilla collaborazione con l'Anpi, soprattutto in un comune lavoro all'interno delle scuole. Questa ritrovata unitarietà delle sue associazioni resistenziali riceveva unanime conferma nella affollata assemblea che l'Alpi-Apc teneva a felina il 23 giugno 1999 ed è continuata fino ad oggi dalle successive presidenze di Danilo Morini e Elio Ivo Sassi.
Giuseppe Giovanelli
(Da: La Libertà n.13, 5 aprile '22)
La figura di Giorgio Morelli è ancora troppo sconosciuta, e aggiungo, mal.”digerita” dal pensiero unico della resistenza.
MA
Grazie Professor Giovanelli, per la precisa e lucida ricostruzione della storia. Per informarci sugli aspetti che nel primo dopoguerra l’ANPI ha compiuto sul nostro territorio, e che per troppo tempo sono rimasti “non letti”.
Da pro Nipote di Meuccio Casotti caduto al Monte della Castagna nella Battaglia di Pasqua sono orgoglioso della mia appartenenza all’Alpi, vera associazione della memoria e non persecutrice di scopi politici come qualcun’altro, recentemente, ha voluto intraprendere.
Grazie.
Mattia Casotti
“Così vediamo, ad esempio, un Pasquale Marconi, disarmato, a giacca sbottonata, andare incontro al capitano Leibold armato fino ai denti, e sorprenderlo, e disarmarlo moralmente parlandogli delle bambole che deve portare alle sue bimbe.”
Onore e onere eterno Nonno Gigante!
Illumina questa valle e tutta Lilliput!
Tua nipote devota,
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