Home Cultura “Ma che colpa abbiamo noi…” – racconto di Alberto Bottazzi

“Ma che colpa abbiamo noi…” – racconto di Alberto Bottazzi

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Quando sono partito dal mio paese per l’Ucraina pioveva a dirotto, ma qui al contrario piovono bombe e non basta l’ombrello per ripararsi!

Mia moglie è ucraina e così abbiamo deciso di venire a vivere per un po’ di tempo a casa sua. Una vita tranquilla, il pane caldo dal fornaio, due fettine di carne in macelleria, un chilo di patate dall’ortolano, con negozio in riva al fiume... a proposito... anch’io vendevo patate, frutta e verdura al mio paese. E ancora un “salto” dal barbiere o una passeggiata in campagna ad ammirare gli anatroccoli nel laghetto degli abeti rossi, sotto un cielo limpido, quando ancora nitidezza e trasparenza significavano serenità per un intero popolo.

Poi, all’alba di un maledetto giorno di febbraio, il colore del cielo si trasforma in nero rancido e l’esistenza di ognuno di noi viene stravolta, stracciata, martoriata nell’anima, come i confini dell’Ucraina calpestati dall’odio conquistatore. Gli aerei nemici cominciano a bombardare le città!

Scoppia la guerra con la Russia e da quel momento tutto cambia, con l’ululato delle sirene che diventa un ingrediente quotidiano delle nostre vite. I soldati invasori avanzano sul territorio, nonostante la strenua resistenza dell’esercito ucraino, mentre gli aerei bombardano i nostri poveri giorni trascorsi al desco del terrore. Anche al mio paese, negli anni sessanta, dal costone del monte sovrastante ululava una sirena due volte al giorno, ma erano segnali di lavoro e di benessere, non di guerra! Tuttavia i ricordi sono fuori luogo ed io e mia moglie dobbiamo proteggere le nostre vite nel rifugio antiaereo, dopo l’ennesimo allarme bomba. Siamo in tanti qui sotto: donne, anziani e bambini infreddoliti, facce stanche, pallide, lacrime pietrificate dalla paura. Nessuno ha voglia di parlare, tuttavia una signora anziana riscontra che dal giorno precedente mancano all’appello tre persone del quartiere. “Se ne sono andati…”, sostiene un’altra donna che sembra sapere il fatto suo, “li ho visti salire in macchina...”.

Guardo negli occhi mia moglie e lei mi legge nel pensiero: bisogna tentare anche noi la fuga da questo inferno! L’occasione si presenta l’indomani mattina, quando un’amica di famiglia e suo marito si prestano a darci un passaggio sulla loro vecchia Lada giallo-blu, in direzione Polonia. Raccattiamo alla svelta un po’ di cose personali e le accartocciamo dentro due grosse borse per poi salire a bordo dell’auto stringendoci l’uno nelle braccia dell’altra. Si parte! Percorsi pochi chilometri ci accodiamo ad una fila interminabile di auto. Passiamo alcuni controlli, i passaporti sono in regola e ci viene riconosciuto lo stato di profughi. Continuiamo la nostra fuga dall’Ucraina in fiamme e una tazza di brodo caldo con un tozzo di pane ristora temporaneamente lo stomaco, ma le esplosioni, con l’odore acre di fumo, feriscono irrimediabilmente l’anima. La vecchia Lada comincia a singhiozzare, anche lei ha bisogno di una “tazza di brodo” ed allora entriamo nell’area di un distributore di benzina. Siamo la trentesima auto in fila e così approfittiamo per abbeverarci ad una fontanella del piazzale. Fa un freddo boia, l’acqua è gelida e scorre lentamente, come se da un momento all’altro stesse per fermarsi. Non è l’acqua della fontana dello Skudlin del mio paese, ma in questo momento va bene lo stesso. Ripartiamo e le ruote della Lada corrono più veloci, tanto che a mezzanotte passiamo la frontiera con la Polonia. Non sappiamo quanti chilometri abbiamo percorso, forse 1000/1500: il contachilometri della macchina non dà segni di vita.

Non mi reggo in piedi e mia moglie ha un gran mal di testa, ma non ci arrendiamo, anche quando ci ritroviamo appiedati, poiché i nostri benefattori sono arrivati a destinazione, ospiti di parenti polacchi. Fa freddo anche qui, molto freddo, mentre un gruppo di “angeli custodi” ci invita a riscaldarci accanto al fuoco insieme a tanta altra gente, tutti accomunati dallo stesso destino, ma ognuno di loro porta dentro la propria sofferenza. La strada per arrivare in Italia è ancora lunga, ma un passettino in avanti l’abbiamo fatto.

Per proseguire il viaggio occorrono altri passaggi ed allora chiediamo aiuto ad un volontario di un’organizzazione umanitaria che non finirò mai di ringraziare. “Un camion carico di cereali parte tra due ore per Praga, non è Italia, ma sarete sempre più vicini ai vostri confini…”, ci consola Roman, volontario dal cuore d’oro, e così conosciamo il nostro secondo benefattore. Il camionista ceco è un omone corpulento, peserà centotrenta chili e accetta di darci un passaggio fino in Repubblica Ceca, in cambio di 150€ a testa. Accettiamo la proposta, fortunatamente i soldi non mancano! Saliamo in cabina con un po’ di difficoltà, mettendo le borse sopra il lettino dell’autista ed il camion parte alla volta di Praga. Dopo poco ci addormentiamo, ma non sarà un riposo ristoratore, poiché immagini terribili si parano continuamente davanti agli occhi. Avverto un forte odore di tabacco che mi fa venire la nausea, ma non posso contraddire l’autista. Percorriamo autostrade, vie principali e secondarie e finalmente arriviamo in territorio ceco.

Il centro di Praga è a 1 km da dove ci ha lasciato il camionista e non ci resta che continuare la strada a piedi fino alla stazione ferroviaria.

Dal binario della speranza è in partenza il treno internazionale Praga/Trieste, attraversando i confini dell’Austria. Il treno è lì impaziente ad aspettarci, ha addirittura posticipato l’orario di partenza di quaranta minuti non “vedendoci arrivare”. Le carrozze sono abbastanza libere e non abbiamo difficoltà a trovare un posto a sedere, giusto in tempo per non crollare a terra. Fermata dopo fermata varchiamo il confine ceco-austriaco al tramonto del 5 marzo e la notte ci accompagnerà alla frontiera con l’Italia. Siamo fermi, i poliziotti italiani salgono a bordo per controllare i passaporti e quando diciamo loro che veniamo dall’Ucraina in guerra ci dimostrano tutta la loro solidarietà.

Trieste “liberata” ci accoglie a braccia aperte, ma l’entusiasmo si annulla al pensiero che c’è ancora tanta strada da percorrere. Prima di salire sul treno Trieste/Reggio Emilia, via Venezia-Bologna, contiamo il denaro rimasto e, per sostenere le forze che stanno per cedere, compriamo due panini e due bottigliette d’acqua. Trieste bella, ma Reggio Emilia ancor di più! Eccoci alla stazione di Reggio dopo quattro ore di viaggio e una volta scesi individuiamo un amico compaesano che ci attende. Lo guardo attraverso un velo di lacrime e non ho nemmeno la forza per abbracciarlo, quando si fa incontro per prendere le borse e farci salire sull’auto. Cominciamo così l’ultima avventura verso l’Appennino. La strada mette in luce luoghi conosciuti, attraversa paesi che sanno di casa ma che non sono ancora la vera casa. La divina Pietra appare in lontananza e mentre cerco di stare sveglio il più possibile percorriamo la Sparavalle… ah… no… bisognerebbe cambiarle il nome… non vorrei più sentire la parola “spara…”. I monti si stagliano all’Orizzonte, la via scende verso il fiume per poi salire ardita dall’altra sponda.

Le curve diventano tornanti e tornante dopo tornante arriviamo al cartello indicatore della nostra meta finale: LIGONCHIO. La nostra odissea è terminata, ma il terrore della guerra quello no, non finisce qui, ce lo porteremo dentro per tutta la vita.

BENVENUTI A LIGONCHIO, recita una gigantesca scritta, mai come in questo momento così appropriata, ed il nodo in gola comincia a sciogliersi lentamente con la gioia che, in un battibaleno, demolisce l’angoscia. Il clacson suona all’impazzata all’arrivo nella piazza del paese, mentre la gente applaude e le campane suonano a festa al nostro passaggio per la “Rampada de Bok”… è casa!

Potrei concludere il racconto ricordando le parole di una vecchia canzone dei Rokes in voga negli anni settanta: “Ma che colpa abbiamo noi...”

(Libera interpretazione di un fatto realmente accaduto.)

Alberto, 10 marzo 2022