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“Amici per la pelle”, racconto di Ave Govi

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Erano in quattro e fin dall’età della ragione erano stati inseparabili. Due di loro nati persino nello stesso giorno, mese e anno, le case  addossate l’una all’altra, che solo una parete divideva le loro camere da letto. Battendo con le nocche sul muro, si erano persino inventati una specie di alfabeto Morse, col quale  comunicare una volta coricati. A scuola nessuno di loro  si era mai impegnato molto, mai distinto, anche se  mai   bocciato. Seguivano semplicemente e passivamente  le orme dei padri e dei nonni, per i  quali,  a prescindere dalle ristrettezze, la scuola non era poi così indispensabile, atta soltanto a formare una schiera di fannulloni. 

La schiena la si doveva piegare finché le ossa erano tenere, anche se il risultato non sempre corrispondeva alle aspettative. Il cosa fare da grandi  iniziarono a chiederselo  verso i sedici anni,  a parlarne insieme  una sera d’agosto, mentre sdraiati sull’erba del prato, inseguivano lo zizzagare delle stelle cadenti nella notte di san Lorenzo.   

La stagione dei libri scaduta  da un bel pezzo, questi riposti in soffitta, una zappa e una vanga   i cui manici già s’erano lisciati, i primi calli sulle mani. Lo spettro  dell’emigrazione.

Mi sono  messo all’ascolto dei miei  ieri sera, e mio padre diceva che fino ai diciotto anni in miniera non prendono nessuno”.

In Belgio? Perché tu ci andresti“?

Forse no, ma è uno dei lavori meglio pagati”.

Beh, c’è anche la Svizzera, come manovali in qualche impresa, oppure la Germania come bovari”.

Andrebbe già meglio. Ma nel frattempo”?

Il dialogo si alternava, lo sguardo al cielo, le braccia ripiegate sotto la testa.

Si tratta di pazientare  e nel frattempo diamo una mano. Qualcosa come garzoni potrebbe saltarci fuori anche qui”.

Mai come quella sera però  il silenzio, come una presenza molesta s’intrufolava, perso ognuno nel  proprio percorso. 

Dobbiamo farci una fotografia”, se ne uscì a un tratto uno di loro: “Tutti quattro assieme, una copia per ciascuno formato cartolina, da portare sempre con noi nel caso ci ritrovassimo divisi”.

Sì, ma i soldi chi ce li dà? Costano le fotografie”.

Quasi mai  di soldi ne avevano visti passare anche tra mani dei genitori, che forse non li conoscevano neppure. 

Il Plinio mi risulta faccia credito. Quando si è sposata mia sorella ne ha scattate una decina e non sono neppure sicuro che gliele abbiano ancora pagate”!

Il Plinio era l’unico fotografo del circondario, lo studio di fianco all’ufficio postale, una vetrinetta dove teneva esposto il meglio della sua produzione. Nella  stanza, allestita con sapiente  buon gusto, oltre alla colonnina dove molti si mettevano in posa appoggiandovi il braccio, c’era  su una parete una specie di sipario arabescato a far da sfondo, una sedia di foggia antica rivestita di velluto,  uno specchio e persino un ventaglio per le signore. Era un  fotografo esperto lui,  un artista, e prima di mettersi in proprio, aveva fatto un lungo tirocinio come apprendista. Di comune accordo e in gruppo, il giorno dopo  ne varcarono  la soglia, Plinio  seduto al tavolino intento  a imbustare qualcosa, e se fu sorpreso di vederli non lo palesò. Lungo il percorso si erano messi d’accordo su chi doveva parlare e cosa dire.

Ecco… vorremmo fare una fotografia tutti insieme, quattro copie formato cartolina”.

Il Plinio li aveva fissati, incuriosito dal modo circospetto e impacciato col quale si guardavano intorno. La sua curiosità comprendeva anche il loro trasandato abbigliamento, inadeguato alla richiesta. Di solito chi si faceva ritrarre si metteva il vestito della festa, la brillantina sui capelli. C’era qualcosa di stonato, subito chiarito: “Vorremmo però prima sapere quanto ci verrebbero a costare”. Finse di conteggiare: “Vediamo, quattro copie…formato cartolina… Cento lire, venticinque l’una. Con la sigaretta o senza”?

Con la sigaretta? Che voleva dire?  Nessuno di loro fumava, e poi… che c’entravano le sigarette? Non si erano accorti che quel buontempone del Plinio li stava bonariamente sfottendo. Alzatosi aveva tirato la corda del sipario, la parete dietro letteralmente coperta di  ritagli  tratti da  libri e giornali, tra i quali spiccavano diversi  giovani in posa  con la sigaretta o tra le labbra o tra le dita. 

La sigaretta dà un tocco di distinzione, di maturità. Guardate, persino al fronte in tempo di guerra, chi ha potuto farlo si è fatto ritrarre, oltre che col fucile alla spalla, con la sigaretta”.   Era vero. Sulla parete erano ben visibili foto di gruppo,  fucile o baionetta e vestiti laceri, ma la sigaretta ben in mostra. Si accorsero di essere fissati in attesa di una risposta. 

Noi non fumiamo. Poi… con la sigaretta…costano di più”

Costerebbero di più. Ma per voi farò uno strappo alla regola. Le sigarette ve le fornisco io, ma dovete esercitarvi a tenerle in mano se volete che la foto riesca bene. Il fumatore abituale non la tiene tra il pollice e l’indice, ma tra l’indice e il medio, la mano allargata quando se la porta alle labbra. Non accendetele però e non sciupatele, che poi me le dovete restituire. Altra cosa: dovrete darvi una sistemata, d’accordo”?

Dal cassetto del tavolo estrasse un pacchetto di Nazionali sfilandone quattro e porgendogliele.

Il vestito della festa l’avevano, erano le lire che mancavano.  Come racimolarle?  Non avendo nessun parametro di valutazione, la cifra pareva loro non del tutto indifferente. In ogni gruppo c’è  sempre chi osa di più. 

Lasciate fare a me.  Vi garantisco che domenica avremo i soldi”.

Anche se il tempo per fare il chierichetto era ormai passato da un pezzo, c’era un rituale nel corso della messa a cui erano ammessi persino adulti: appena dopo l’offertorio fare il giro tra i banchi col cestino delle elemosine, ricordando che il farmacista, bigotto quanto generoso, era solito allungare, e ben in evidenza che si vedesse, una banconota che si augurava corrispondesse a quell’importo.  Nessun parrocchiano   presente si stupì quando a metà messa,  al momento ritenuto opportuno si portò nel vestibolo a prendere il cestino, di seguito fare il giro, il bottino sperato finito in seguito nelle sue tasche.  All’uscita sul sagrato, con una strizzata d’occhio, aveva rassicurato gli amici. 

Quando Don Battista,  riposto a fine messa il calice nel tabernacolo e tolti i paramenti fece la conta, gli saltò subito agli occhi che quella banconota, sulla quale ogni settimana faceva affidamento,  mancava. Era certo che il generoso donatore del quale presumeva di conoscere  il nome, avesse lasciato la consueta offerta. A sottrarla però poteva essere stato chiunque. Nel vestibolo, oltre  ai chierichetti bazzicava nel corso della messa il campanaro, poi c’era  quello detto in gergo e scascin, che con la pertica  con alla sommità il cappuccio,  al termine della  cerimonia spegneva  le candele, la solerte  perpetua che ritirava i lini  bisognosi di bucato.  Alla fine  aveva scosso la testa sconsolato: nessuno  di loro reputava capace. 

I quattro intanto, appena si trovarono soli,  si fecero passare la banconota da uno all’altro, increduli di trovarsela  tra le mani. 

Siamo sicuri che sia da cento”?

Saprai leggere no”.

Ma quella sera sdraiati sull’erba, c’era un qualcosa che li rendeva restii, un sospeso che gravava senza apparente ragione. 

Domani andiamo dal Plinio”, ruppe il silenzio qualcuno: “Siete d’accordo”?

Meglio aspettare qualche giorno. Potrebbe insospettirsi”. Il ladro.

Ma che cavolo vuoi che gliene freghi! Sono soldi che gli vengono in tasca, e mica c’è scritto sopra da dove provengono”.

Già, ma noi  lo sappiamo e non sono più così sicuro che fosse necessario arrivare a questo”.

L’idea è stata tua e anche il resto. A noi manco sarebbe venuto in mente”.

Quindi allora i soldi sono miei e posso farne ciò che voglio”.

Cioè? Ci metteremo mica a litigare adesso,  non l’abbiamo mai fatto neppure da piccoli. Per una fotografia poi”!

Hai ragione. Datemi un giorno per pensarci su, d’accordo”?

Ma la notte la passò insonne,  tra sensi di colpa, timore e vergogna. Vergogna soprattutto. Di sé per ciò che aveva fatto, vergogna marchiata ai genitori che spesso li aveva sentiti dire: poveri sì ma onesti. Vergogna nei confronti del don che con le elemosine provvedeva alla chiesa e  aiutava i più bisognosi.  Il mattino dopo,  la banconota nella tasca,  prese la via della canonica, incrociandolo proprio sul sagrato. E adesso che dico, che faccio?  Ora insolita per una visita.

Non ti aspettavo così presto”, gli disse il parroco, uno strano sorriso sulla bocca.  

Che…mi… aspettavate?” 

Sì. Non mi devi forse restituire qualcosa”? gli rispose, tendendo la mano.

Ma…ma… come facevate a …

A sapere che saresti venuto? Mistero della fede, ragazzo mio. Mistero della fede”.


Diceva Helen Keller: “I veri amici non saranno mai distanti, forse nello spazio, ma mai col cuore”.