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Elda racconta, C’era una volta la neve

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Sul Bricco con Meo

C’era una volta la neve

Dopo una nottata così-così, mi sono riaddormentata sul far del giorno. Naturalmente mi sono svegliata un po’ più tardi del solito, ho aperto la finestra e con gioia ho visto che la nebbia, dopo due settimana d’assedio se ne è andata. Mi ripeto, piano non gioire troppo e subito ricordo un vecchio proverbio: “temp fat ed not sal dura un dè al dura trop”. Traduco sempre per chi non ha studiato il dialetto “tempo fatto di notte se dura un giorno dura troppo”.
Spalanco i vetri per respirare quest’aria fredda sì, ma molto sana, poi volgo lo sguardo attorno e mi si presenta la mia amata Pietra coi suoi colori autunnali degni della tavolozza del miglior pittore. Oggi lo chiamano “fogliage”, adeguiamoci pure a questo linguaggio moderno, anche se a me sembra che sappia poco d’italiano.

Lascio perdere e mi godo questo spettacolo, i primi raggi del sole lambiscono la chioma di questa montagna e sembrano specchietti seminati da una mano divina, mentre sul Ventasso arrivano già con forza e lui è là con le sue tre cime che si stagliano sopra un cielo azzurrissimo che osserva questa Pietra con questi colori stupendi: il verde di varie tonalità, come il marrone, poi qua e là qualche spruzzata di rosso e di arancione molto marcato, lassù proprio sotto il sasso che dove può si mostra in tutta la sua bellezza.

Nei campi finalmente una spruzzata di brina, dico finalmente, perché nei tempi passati in questo periodo era già caduta la prima neve: “Pri Sant la neva in ti camp, pri mort la neva int’iort”. Traduco: per i santi la neve nei campi, per i morti la neve negli orti e questo significava che la neve prima arrivava sulle alture, ma subito dopo ricopriva tutto il paese. Belle nevicate, ti svegliavi la mattina nel silenzio più assoluto il suo manto ovattava ogni rumore, ti affacciavi e trovavi la strada completamente bianca e i fiocchi che continuavano a scendere. Non esistevano gli spartineve, soltanto le pale usate dai volontari che facevano la “rotta”, certamente da noi arrivavano molto tardi, perché partivano da Carnola circa due chilometri più in là e li sentivi arrivare da lontano, davanti a tutti i più giovani Adolfo e mio cugino Eramo che con voce stupenda, mentre spalavano, cantavano canzoni in voga di quel tempo, e quando arrivavano qui, anche gli uomini di casa si univano al gruppo con la loro voce, ma soprattutto con la loro pala arrivavano fino in paese.

Finalmente noi piccoli potevamo mettere gli sci ai piedi e cominciare a fare capitomboli nella neve (sci fatti da nostro padre con gli attacchi ricavati da una scatola di latta da conserva vuota). Poi più grande 16-17 anni avevo comprato gli attacchi veri, i più a buon mercato da Canovi appena arrivato in paese col suo negozio di articoli sportivi, la  domenica partivo da qui e arrivavo al “Bricco” senza bisogno di cavarmeli, tanta era la neve anche sui marciapiedi, sto parlando di quando il cimitero era poco più grande di un fazzoletto e attorno ad esso non c’era nessuna casa.

Al “Bricco” poi trovavo le mie amiche, la Silvana Teggi era un’appassionata come me, ma ancora non aveva gli sci, allora facevamo un po’ per uno, oppure arrivavamo ai Pavoni dove Mario Dalla Porta ce ne prestava un paio. Altrimenti sempre sul “Bricco” univamo due slittini li legavamo ben stretti con una corda e ci salivamo in cinque o sei e ci buttavamo giù di fianco alla pista da sci per non rovinarla, io solitamente dietro a chi aveva l’onere di guidare, ricordo che Silvana era la più coraggiosa. Vi dirò, io non lo sono mai stata, andavo lì e mi davo un po’ di arie con questi sci casarecci, ma al “Bricco” facevo solo il primo pezzo di pista quello frequentato dai bambini, non ho mai avuto il coraggio di buttarmi nel precipizio anzi vi dirò, sono stata ben felice quando lo sci da fondo è arrivato anche da noi, ma alle donne era ancora proibito non erano ancora accettate nello sci club, non so dirvi perché, forse per mancanza di mezzi, non voglio pensare che alle donne fosse solo riservata la “scapinella” fatta ai ferri. In compenso poi questo sport è stato frequentato con onore e dedizione da tutti e tre i miei figli e anche dai nipoti.

Torniamo al “Bricco”, là poi di amiche ce n’erano altre, oltre alla Silvana, c’era L’Assuntina, Iva Berretti, la Vanna Massari la Luisa Tamagnini e altre ancora che mi perdoneranno se non mi sovviene il nome. Chi guidava poi sto “slittone trenino”, con le gambe belle tese e il calcagno piantato nella neve doveva frenare, il più delle volte capottavamo fra le risate, ci riempivamo di neve, certe poi non portavano i pantaloni così si rinfrescavano bene.

Anche gli sciatori provetti di Castelnovo ci guardavano divertiti, posso ricordarvene qualcuno, Ugo Viappiani, Dorino Berretti e il fratello, qualche volta Umberto Casoli e Dantino, Giorgio Agostini, Piccinini, poi uno che abitava lì vicino a Villa Rosa, non ricordo il nome ma era il più pazzo, una volta ha fatto la discesa con una sola racchetta in una mano, nell’altra mano stringeva un fiasco di toscano, poi c’erano anche Meo Saccaggi e Lino Farina loro erano molto bravi li ho visti anche fare gare di slalom con ottimi piazzamenti. Poi molti altri, chi più grande di noi e chi più  piccolo, molte di queste persone ora staranno sciando lassù nelle piste luminose da qualche parte di questo universo misterioso.

Tempi felici della mia prima gioventù quando non c’era ancora niente, ma ci divertivamo molto lo stesso.

Elda Zannini

3 COMMENTS

  1. Un racconto che riesce a far rivivere quasi in diretta quei tempi andati, come se ci scorressero davanti i suoi protagonisti, uomini e cose, e quanto al “fogliage” penso anch’io che potrebbe esservi una versione pure nella nostra bella lingua.

    P.B. 26.11.2021

    • Firma - P.B.
  2. Una notte, un po’ di tempo fa, scendevo da Piandellagotti in mezzo ad una tormenta di neve. Guidavo piano e ripensavo alla bella serata. C’eravamo quasi tutti a quella cena, anche lei, i primi rossori e l’emozione del primo appuntamento. Fino all’incrocio con Frassinoro avevo seguito lo spartineve ascoltando una ‘cassetta’ della “prima Vanoni”. La casa allora era già vuota e dopo pochi giorni sarei ripartito. Dopo la curva, la lucciola dello spartineve scomparve, fuori rimase solo la neve nei fari nella sua lotta contro il tergicristallo. In un tornante, in mezzo alla neve, ormai ricoperto del tutto, Luigi e il suo violino. Dio solo sa come fosse finito lì. Era un vagabondo, suonava nelle sagre. Imbottito di carta da giornale dormiva dove trovava, lo avevo conosciuto anni prima e per me era un saggio. Non voleva salire, non voleva sporcare, non voleva bagnare … quattro madonne di cantiere bastarono per fargli capire che non lo avrei lasciato lì. Tornammo su in quella bettola dove i mobili erano ancora quelli del secolo scorso e continuavano a dare il calore delle cose vere, dove il pavimento era ancora il pavimento della stalla dei viandanti del secolo prima, dove le finestre strette e con le inferiate, raccontavano storie di briganti. Anche noi vivemmo da briganti quella notte giù in cantina. Dopo un pasto caldo, Luigi cominciò a suonare, e il vino, nelle caraffe, veniva direttamente dalla botte in alto … quella delle grandi occasioni.

    (Giovanni Annigoni)