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Commissione delle elette, interviene Anna Fornili: “Nei paesi denunciare richiede ancora più coraggio”

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Anna Fornili, capogruppo di minoranza "Casina Futura"

Riceviamo e pubblichiamo l'intervento della capogruppo di opposizione di Casina, Anna Fornili, durante la Commissione delle elette-Regione Emilia Romagna, tenutasi oggi, giovedì 25 novembre, Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

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Buonasera a tutte e a tutti, sono Anna Fornili e sono una delle tre donne, su quattro consiglieri complessivi, che siedono al tavolo dell’opposizione nel Consiglio Comunale di Casina.

Casina è un territorio montano di circa 4000 abitanti. Come molte altre realtà di ridotte dimensioni, è caratterizzato da una genuina dinamica di paese: le persone si conoscono, si aiutano e sono a tutti gli effetti membri attivi della comunità che costituisce il territorio comunale. Proprio nelle circostanze di “piccole comunità” può risultare ancora più complesso trovare la forza di esporsi e di uscire dal proprio silenzio; è ancora più difficile evitare che i conflitti vengano normalizzati e che situazioni di pericolo diventino parte del quotidiano. Nei paesi farsi sentire richiede ancora più coraggio.

La lotta contro la violenza sulle donne si basa su azioni concrete di sensibilizzazione, prevenzione e cura: sono obiettivi fondamentali su cui lavorare a partire dalle comunità dei paesi, dalle proprie case e dalle scuole, fino ad arrivare alla dimensione regionale. Il Piano contro la Violenza che avete appena esposto risulta un fondamentale riferimento per continuare a costruire una società che rispecchi davvero i princìpi di parità costituzionale, perché ancora c’è tanto su cui lavorare.

Proprio stasera a Casina verrà inaugurata una panchina dedicata a Jessica Filianti: un piccolo campanello che ricordi ai passanti che ancora oggi le violenze sulle donne si contano giornalmente e che siamo ben lontani dalla risoluzione di questo problema.

Non posso non ricordare due recenti tragedie che hanno segnato il nostro territorio: penso a Cecilia, assassinata in un parco a Reggio tra venerdì e sabato scorsi, penso alla recente strage di Sassuolo che ha visto vittime, oltre a due donne, anche due bambini. Questi sono avvenimenti che non possono lasciarci indifferenti, perché coinvolgono tutte le comunità quali parti di una società ancora intrisa di disparità radicate. Come già detto, la violenza sulle donne non è che la punta dell’iceberg di un assetto socioeconomico e culturale squilibrato, che limita la soggettività femminile e produce nei confronti delle donne diverse forme di discriminazione e ostacoli.

La lotta contro la violenza è un tema di giustizia, di cultura, di istruzione; è trattato a scuola come uno dei goal – il n°5 – di Agenda 2030, che ha come obiettivo quello di raggiungere l’uguaglianza di genere e l’autodeterminazione di tutte le donne. Serve continuità di dialogo, informazione ed educazione per radicare nella società la consapevolezza che le donne hanno a tutti gli effetti lo stesso valore degli uomini: in termini di diritti, ma anche in termini di abilità.
Il principio di autodeterminazione non si può basare su misure economiche, incentivi, benefici o leggi; non si tratta di quote rosa, perché non sono queste la soluzione alle disparità sociali presenti nel panorama italiano.

Ancora oggi parlare di pari opportunità in alcuni ambiti risulta anacronistico. In Italia solo il 29% dei vertici d’impresa è occupato da donne, contro il 38% tedesco (analisi Women in business 2021 di Grant Thornton); la scorsa tornata elettorale solo il 17% dei candidati sindaco era una donna; la Pagella Politica dei Il Sole 24 Ore riporta come solamente il 6.5% dei governanti degli ultimi 75 anni fosse composto da donne. A seguito dei tagli economici dovuti all’emergenza sanitaria, la disoccupazione femminile è doppia rispetto a quella maschile: dati che vanno a corredo dei trend relativi al congedo parentale, che vede quasi solamente le donne rinunciare alla carriera per motivi familiari, anche perché generalmente caratterizzate da stipendi più bassi. Eppure in Italia le donne diplomate e laureate sono notevolmente di più rispetto agli uomini (Report Istat sui livelli di istruzione durante il 2019). C’è da chiedersi quali siano le cause di trend simili, perché è ovvio che non si può ridurre il problema a mancate capacità femminili.

Quando vivevo in Africa ho avuto modo di confrontarmi con giovani madri che sottoponevano, come da tradizione, le
proprie figlie a riti iniziatori per l’ingresso nelle loro “società tribali”, piccole forme di comunità locali la cui appartenenza era vincolata a mutilazioni genitali. Quando chiedevo loro il motivo di tale scelta, mi rispondevano che sebbene fosse una pratica disumana, preferivano che le figlie la affrontassero e che fossero di conseguenza a tutti gli effetti parte della comunità piuttosto che rimanere escluse dalle proprie comunità. Preferisco che mia figlia si senta “normale”, mi dicevano. Ma chi dice cosa è normale? Forse è la domanda che anche noi dobbiamo porci.

È normale che gli stipendi femminili, a parità di mansione, siano più bassi. È normale che rimanere incinta spesso
comporti una compromissione della carriera. È normale che una donna si senta chiedere, in fase di colloquio, se intenda o no avere dei figli. È normale che le donne subiscano molestie sul luogo di lavoro. È normale che una donna debba dimostrare ogni giorno di essere all’altezza di un incarico assegnato. È normale che una donna in politica sia di scarsa affidabilità e che non abbia diritto nemmeno ad avere accesso ad un appellativo: è normale dire Sindaco, non è normale dire Sindaca. E potrei proseguire ancora.

Finché una di queste cose sarà considerata normale, finché la figura della donna sarà segregata intorno ai temi
socioassistenziali o educativo-scolastici, l’obiettivo n°5 sarà ancora lontano. È il sintomo di una società che ancora non riesce a riconoscere l’autorevolezza femminile come “normale”, a tal punto che spesso anche noi donne iniziamo a credere di non essere abbastanza brave, di non essere all’altezza degli uomini per certe assegnazioni o per certe cariche. E questo pensiero è profondamente “a-normale”.

Esistono donne che con il proprio lavoro e il proprio impegno ogni giorno dimostrano il contrario: l’inversione sociale inizia da esempi di locale normalità: inizia da una panchina, da una fiaccolata, dalla Barbie ad immagine di Samantha Cristoforetti, fino ad arrivare ai Piani Regionali. Tutte misure che ci vogliono mettere nella condizione di valutare noi stesse che cosa è normale per una donna e che cosa non lo è.

Noi non pretendiamo una via preferenziale, ma una via paritaria, perché a parità di diritti corrispondano pari opportunità e pari considerazione sociale: finché ci sarà qualcuno che si sentirà in diritto di pensare che le donne siano in qualche modo inferiori agli uomini, comprese le donne stesse, le violenze di qualsiasi tipo non cesseranno. E questa inversione di opinioni parte dal basso: parte da tutte le donne che occupano il posto in prima linea nella propria vita, qualsiasi vita sia, qualsiasi scelta venga fatta, purché sia autodeterminata.

Concludo citando Caroline Crìado Perez nel bestseller Invisibili:

“L’esperienza e la prospettiva maschili hanno finito per assumere una dimensione universale, mentre l’esperienza
femminile - quella cioè di metà popolazione mondiale, in fin dei conti - è diventata di nicchia”.