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Ogni favola ha la sua morale

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“C’era una volt a un re…”. “Oh no, zia, sempre quella mi racconti”? “C’era una volta una principessa che viveva rinchiusa nella torre di un castello e…”. “Che noia! L’ho sentita migliaia di volte”! “C’era una volta un burattino di legno che ogniqualvolta diceva una bugia, il naso gli si allungava”. Finalmente silenzio. Chiara è lì nel suo letto,  circondata da una schiera di peluche, che ora mi guarda con gli occhioni sgranati, e l’espressione compunta che non mi aspettavo mi coglie di sorpresa. Sta a vedere che stasera mi tocca riesumare il povero Pinocchio, mi dico vagamente sgomenta. Ma poi vedo la sua manina  toccarsi e seguire la linea del naso dalla radice alla punta, scendere e risalire, rivolgendomi infine uno sguardo in cui scorgo senza alcun dubbio un barlume di sfida.

“Anche questa l’ho già sentita e non mi piace perché non dice il vero. Io le bugie le dico ma il mio naso è sempre uguale”.

E brava Chiara. In realtà di Chiara non sarei una zia ma una cara amica della sua nonna con la quale lei convive, e ci separa la bellezza di settant’anni suonati. Ma ogniqualvolta mi reco da loro  in visita, e ciò, abitando a due passi succede abbastanza spesso, mi chiede di accompagnarla a nanna, rimboccarle le coperte e raccontarle una favola. Stasera però sono “Chiaramente” in difficoltà, ma visto che in qualche modo devo uscirne, e se possibile a testa alta, qualcosa devo escogitare.

“Visto che sei una bambina che dice bugie, stasera niente favola, soltanto il bacetto della buonanotte”, improvviso, imponendomi di restare seria e alzandomi.

Allunga di scatto la manina, afferra la mia, e: “ No, no, ti prego, una favola. Una che non mi hai mai raccontato”. A questo punto non fingo affatto, ma mi metto seriamente a riflettere, captando la sua speranzosa attesa.

“Sì, una che non ti ho mai raccontato  l’avrei, ma non so se ti piacerà. E’ la storia di una bambina nata povera ma che era sempre felice. Viveva  in un gruppetto di case in mezzo alla campagna  circondato da boschi e i suoi migliori amici erano un cane, diversi gatti, una capretta e cinque pecore che nella stagione estiva, libera dagli impegni della scuola, portava a pascolare nei campi o lungo il fiume. Viveva contenta e spensierata con due fratellini più piccoli e tanti amici, arrampicandosi a volte sugli alberi in cerca di frutti o di nidi, trepidando sino alla schiusa delle uova, osservando affascinata la madre dei piccoli rigurgitare il cibo durante l’imbeccata, nutrendoli sino a che non erano in grado di prendere a volare. Nei mesi invernali quando la neve copriva la campagna, imbacuccata in sciarpa e berretto, costruiva sull’aia i fantocci delle  sue favole preferite, quasi sempre Biancaneve e i sette nani  che soltanto al disgelo  si scioglievano. In prossimità del Natale, armati di scure, lei, il padre e i fratellini si recavano nel bosco a scegliere e tagliare un alberello di ginepro, sui cui rametti venivano appese mele rosse, pannocchie di granturco e bacche. “E le lucine"?  “Non avevano le lucine, ma siccome l’albero veniva messo di fianco al camino, la fiamma lo illuminava. I suoi genitori, nella stagione estiva, erano sempre molto impegnati nei campi e la madre le aveva insegnato a sbrigare le faccende di casa come una donnetta.

“Aveva le Barby”?  “No, soltanto una bambolina di pezza che la mamma le aveva fatto.  Non era una bambina esigente, sapeva che i suoi genitori non avevano i soldi per comprarle bambole e giocattoli, e non chiedeva mai niente. La stagione che preferiva, anche se con essa ricominciava l’impegno della scuola, era l’autunno. In autunno  c’era la  raccolta delle castagne, la vendemmia,  e una volta riempiti i tini di grappoli, il padre, scalzo e con le brache rimboccate, vi entrava dentro, pestando sino a che dal rubinetto del tino non usciva il mosto.  Essendo la più grandicella, lei aveva il compito di raccogliere  col secchio di rame il mosto sceso nel  mastello  e allungarlo al padre che lo rigettava nel tino riprendendo a pestare.

“Perché lo ributtava dentro?”  Sorpresa! Sta a vedere che la storia le piace. “Lo faceva perché così  il raspo del grappolo veniva lavato e nel tino rimanevano solo le vinacce”.  “Cos’è il raspo”? “Il raspo è come un ramoscello con tante manine da dove poi spuntano i chicchi d’uva e che poi diventa il grappolo.”

“Ma tu come fai a sapere queste cose? Anche a te qualcuno lo ha raccontato”?  Quanto sono abili i bambini a porre domande,  quanto avidi di risposte.  Cosa rispondere? “Sì, Chiara, anche a me qualcuno lo ha raccontato. Ma …vuoi che continui”?  “Sì, sì”. E ricomincio.

"Una cosa però in quella stagione la rendeva triste: la partenza delle rondini dai nidi sotto la gronda. Non sentirle più  al mattino, non vederle sfrecciare nel volo basso della sera prima di coricarsi, la faceva sentire  sola, e allora pregava che il loro lungo viaggio giungesse al termine felicemente. Sull’aia della sua casa c’era un grande forno a legna dove la madre, una volta alla settimana, coceva il pane.  Il giorno del pane era sempre un giorno di festa, perché la madre, pur non avendo a disposizione tutte le cose che possiamo comprare oggi, riusciva a mettere insieme ciambelle dolci con l’uva  e focacce.  Il padre le aveva costruito uno sgabello così che potesse arrivare al tavolo, e dal pezzo di pasta che la madre le dava, lei si modellava  i suoi animali preferiti, che poi la madre metteva a cuocere insieme al pane".  “Ma poi se li mangiava?”

"Sì,  escluso il porcellino sempre con la bocca aperta che la madre l’aveva aiutata a modellare, dove ogni tanto lei  vi infilava una monetina”. “Ma se erano così poveri chi gliele dava le monetine”? "La Tomasina.  La Tomasina era una vecchietta che abitava lì vicino, che camminava tutta gobba. Un giorno l’aveva vista portare in casa con fatica  la legna e allora era corsa in suo aiuto, ricevendone in cambio una monetina. Da quel giorno prese a farlo spesso  e scuotendo in seguito  il  porcellino le sentiva tintinnare. Continuo"?  “Sì, sì, ti prego”.

"Nel paese vicino c’era un vecchietto arzillo  soprannominato Bùsa-Bùsa, perché  spesso d’inverno, imbacuccato nella mantella, il cappello, il bastone e la pipa,  forando magari mezzo metro di neve,  bussava agli usci, e allora in gruppo ci si portava nelle stalle per le lunghe veglie. Nelle tasche teneva sempre una manciata di castagne secche che sapevano di tabacco e qualche noce che distribuiva ai bambini, quasi fossero caramelle, prima di iniziare le sue “fole”. Nelle sere calde d’estate  i bambini  li riuniva sull’aia, seduti in cerchio per terra, lui al centro su un uno sgabello, inventandosi di volta in volta storie fantastiche.

Ogni tanto s’interrompeva per accendere la pipa. “Guardate la luna”, iniziò una sera, e tutti volsero il capo verso il cielo dove su quel faccione tondo quasi si potevano vedere disegnati occhi, bocca e naso.

“Un giorno”, proseguì,  “un uomo molto coraggioso volerà  in alto e la raggiungerà, e quando tornerà racconterà la favola più bella che nessuno ha mai scritto o sentito raccontare.” Tutti gli occhi erano fissi lassù. Poi, un giorno, Bùsa-Bùsa non lo si vide più girare per il paese, né  bussare alle porte nelle sere d’inverno, entrare e scrollarsi la neve dalla mantella, avvicinarsi al fuoco e scaldarsi le mani.

Da allora, nelle notti di luna, la bambina, coricata nel lettone di fianco ai fratellini, dalla finestra aperta guardava quella palla illuminata che, passo dopo passo, raggiungeva la cima della montagna, per poi andarsene a nanna.  Lei seguiva il suo cammino e  quasi le pareva davvero di vedere un omino con un sacco sulle spalle chinarsi per raccogliere conchiglie e sassolini. Pensava allora che fosse Bùsa-Bùsa che, allargata la mantella, se ne era volato lassù e che un giorno sarebbe tornato, portando in dono tanti piccoli tesori.”

Così immersa nel racconto, quasi non m’accorgo che Chiara ha chiuso gli occhi, e sollevata, attenta a non far rumore, scosto con cautela la sedia  e m’avvio alla porta, subito richiamata dalla sua voce tutt’altro che assonnata: “Allora è lui che è andato sulla luna” quasi sussurra tra sé. “E…quella bambina, neppure mi hai detto come si chiamava, zia”.  Sorrido.

“Te lo dirò la prossima volta, perché la storia di quella bambina non finisce qui. Ora dormi.”