(foto in evidenza di Marco Campari e Umberto Gianferrari)
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Glauco
Viveva nella teggia di famiglia, così vecchia che tra le piastre in sasso della copertura si scorgevano quarti di lamiera ossidata come bozze di vecchie ferite, così vecchia che quando pioveva e poi strossava l’acqua scanalava sul tetto in pendenza scrosciando a terra senza canalizzazione, in cascata fragorosa, come immensa pisciata celeste.
La porta bassa e storta al piano terra della teggia era scostata, dentro Sedla sedeva su una cassetta ribaltata. La pelliccia allargata a terra come la coda di un pavone. Se l’era cucita da solo, con pelli e code di mammiferi catturati nel bosco. Una pelliccia, grossa, sudicia e sbrindellata. Attorno il buio polveroso appena rischiarato da una candela accesa su un tavolo. Ferri, trappole, tagliole appese ovunque, il banco da lavoro, solcato da lunghe crepe, la morsa fissata a un angolo e sopra sparpagliati, martelli, lime e altri attrezzi. La candela ansimò stanca, consumata fino a un dito dal tavolo.
Sedla fissava a terra, da fuori il grido di un rapace imperava e tagliava la vallata sin dal mezzogiorno. Lontano, poi più vicino, sopra quasi. Sedla fissava a terra, ascoltava e annuiva.
Poi lo stridio cessò di colpo. Sedla sollevò la testa e guardò oltre l’uscio, nel grigiore del pomeriggio, come avesse captato una variazione di frequenza nell’aria gelida. Abbassò il mento, premette la lingua dietro gli incisivi e fischiò, così forte che dalle ragnatele appese agli angoli della casupola la polvere crollò. Ci fu silenzio nella teggia scura, tra le castagne accatastate nei sacchi, tra le trappole per topi seminate a terra, le ferraglie dentate impiccate alle pareti, silenzio sulla pelle della lince catturata di fresco, impalata a seccare. Fuori qualcosa si mosse, nell’aria, frullando. Una nera figura alata si posò davanti la porta, sbattè le ali un paio di volte come per riordinare penne e piume, poi zampettò saltellando dentro la teggia.
“Glauco.” Gorgogliò Sedla, seduto sulla cassetta ribaltata la pelliccia allungata dietro. “L’hai spedita un’altra volta?”
“Craaa!” Fece l’uccello dai riflessi color petrolio.
“Bravo Glauco. Così la pianta di cridare tutto il giorno. Maledetta lei.” Sedla allungò una mano, sporca e incrostata, la manica della pelliccia gli nascondeva metà la mano tanto che l’arto sembrava la zampa di un vecchio orso rognoso. Il corvo intraversò la testa, un occhio vuoto inquadrò l’uomo, poi puntò a terra, nella polvere, poi di nuovo l’uomo. Sedla raspò sotto la pelliccia e lanciò una crosta di pane secco all’uccello. Glauco torse ancora la testa da rettile piumato come controllasse e prendesse la mira al tempo, poi scattò avanti salticchiando, il becco colpì la crosta.
Sedla si alzò e uscì serrando la porta della teggia. Glauco dentro, alla luce morente della candela, spiccò il volo e si appollaiò sulla tavola alla quale era inchiodata la pelle a essiccare. Il capo torto a squadrare in giù come per sincerarsi di che razza di trofeo fosse quello, poi uno spiffero d’aria si intrufolò sotto la porta e fece spegnere la candela. Glauco si sistemò meglio aggiustando le zampe sulla tavola, gonfiò le piume scotendole poi chiuse gli occhi.
GRAZIE ? Silvano Scaruffi
Le parole umili, sono il miglior materiale, per costruire le frasi più belle. Grazie Max. Grazie al cugino Nicola e a Silvano Scaruffi, per aver dato a questo filmato, alcuni colori che prima, non aveva…
Glauco
Viveva nella teggia di famiglia, così vecchia che tra le piastre in sasso della copertura si scorgevano quarti di lamiera ossidata come bozze di vecchie ferite, così vecchia che quando pioveva e poi strossava l’acqua scanalava sul tetto in pendenza scrosciando a terra senza canalizzazione, in cascata fragorosa, come immensa pisciata celeste.
La porta bassa e storta al piano terra della teggia era scostata, dentro Sedla sedeva su una cassetta ribaltata. La pelliccia allargata a terra come la coda di un pavone. Se l’era cucita da solo, con pelli e code di mammiferi catturati nel bosco. Una pelliccia, grossa, sudicia e sbrindellata. Attorno il buio polveroso appena rischiarato da una candela accesa su un tavolo. Ferri, trappole, tagliole appese ovunque, il banco da lavoro, solcato da lunghe crepe, la morsa fissata a un angolo e sopra sparpagliati, martelli, lime e altri attrezzi. La candela ansimò stanca, consumata fino a un dito dal tavolo.
Sedla fissava a terra, da fuori il grido di un rapace imperava e tagliava la vallata sin dal mezzogiorno. Lontano, poi più vicino, sopra quasi. Sedla fissava a terra, ascoltava e annuiva.
Poi lo stridio cessò di colpo. Sedla sollevò la testa e guardò oltre l’uscio, nel grigiore del pomeriggio, come avesse captato una variazione di frequenza nell’aria gelida. Abbassò il mento, premette la lingua dietro gli incisivi e fischiò, così forte che dalle ragnatele appese agli angoli della casupola la polvere crollò. Ci fu silenzio nella teggia scura, tra le castagne accatastate nei sacchi, tra le trappole per topi seminate a terra, le ferraglie dentate impiccate alle pareti, silenzio sulla pelle della lince catturata di fresco, impalata a seccare. Fuori qualcosa si mosse, nell’aria, frullando. Una nera figura alata si posò davanti la porta, sbattè le ali un paio di volte come per riordinare penne e piume, poi zampettò saltellando dentro la teggia.
“Glauco.” Gorgogliò Sedla, seduto sulla cassetta ribaltata la pelliccia allungata dietro. “L’hai spedita un’altra volta?”
“Craaa!” Fece l’uccello dai riflessi color petrolio.
“Bravo Glauco. Così la pianta di cridare tutto il giorno. Maledetta lei.” Sedla allungò una mano, sporca e incrostata, la manica della pelliccia gli nascondeva metà la mano tanto che l’arto sembrava la zampa di un vecchio orso rognoso. Il corvo intraversò la testa, un occhio vuoto inquadrò l’uomo, poi puntò a terra, nella polvere, poi di nuovo l’uomo. Sedla raspò sotto la pelliccia e lanciò una crosta di pane secco all’uccello. Glauco torse ancora la testa da rettile piumato come controllasse e prendesse la mira al tempo, poi scattò avanti salticchiando, il becco colpì la crosta.
Sedla si alzò e uscì serrando la porta della teggia. Glauco dentro, alla luce morente della candela, spiccò il volo e si appollaiò sulla tavola alla quale era inchiodata la pelle a essiccare. Il capo torto a squadrare in giù come per sincerarsi di che razza di trofeo fosse quello, poi uno spiffero d’aria si intrufolò sotto la porta e fece spegnere la candela. Glauco si sistemò meglio aggiustando le zampe sulla tavola, gonfiò le piume scotendole poi chiuse gli occhi.
GRAZIE ? Silvano Scaruffi
(Umberto)
Marco e Umberto,
Vi sostengo e Vi stimo con una mia umile parola!
BRAVI!
MP
(Max Pinelli)
Le parole umili, sono il miglior materiale, per costruire le frasi più belle. Grazie Max. Grazie al cugino Nicola e a Silvano Scaruffi, per aver dato a questo filmato, alcuni colori che prima, non aveva…
(Umberto)