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Ricorre oggi, 18 marzo 2021, la giornata nazionale per le vittime del Covid-19. Si tratta di un momento particolarmente importante e allo stesso tempo toccante, che ci riporta ad un anno fa nonostante nessuno abbia voglia di tornarci, di rifare questo tuffo in un passato che è ancora presente e, probabilmente, lo sarà per sempre.
Le immagini di Bergamo, di quei carri sfilanti che forse, con il senno di poi, potremmo quantomeno definire di “cattivo gusto”, faranno fatica ad essere cancellate. Nondimeno ciò sarà ancora più difficile da dimenticare per chi ha vissuto quel periodo in prima linea, all’interno degli ospedali e ancora più, se ci è concesso dirlo, nelle case residenza anziani, dove le vite scivolavano via dalle mani in pochissimo tempo, poiché il virus trovò facile terreno proprio in queste strutture, dove la fragilità faceva già da padrona.
È impossibile dimenticare quanto dura sia stata all’interno delle residenze per anziani, quanta fatica, quanta precarietà, quanto sfinimento si è respirato. Non dimenticheranno mai quei giorni gli ospiti che sono rimasti, costretti all’isolamento, al troncamento totale della loro quotidianità, alla chiusura dei fondamentali contatti con l’esterno. Non lo dimenticheranno mai i loro familiari, che di punto in bianco non hanno più potuto vedere i propri cari nemmeno in videochiamata, viste le difficoltà organizzative iniziali. Non lo dimenticheranno mai tutti gli operatori sanitari, i coordinatori, i vari responsabili: quelli che si sono ammalati, che hanno contagiato le loro famiglie, così come quelli che sono rimasti a sopportare un carico di lavoro stremante, sia dal punto di vista fisico che da quello psico-emotivo.
È stato un periodo devastante, sotto ogni profilo sociale ed umano. Dopo un anno ci troviamo ancora in un vortice poco chiaro, senza vere e proprie risposte serie ed esaurienti, privati della libertà personale e finanche sociale.
Noi tutti ci chiediamo: si poteva fare meglio? Si poteva fare di più? Si poteva intervenire prima, in particolare nelle residenze per anziani, inizialmente trascurate?
Sicuramente sì, questo è indubbio. Non si può far finta di niente liquidando tutto con frasi tipo «non si conosceva la malattia», «non si poteva prevenire», «nessuno sapeva cosa sarebbe successo». I dati disponibili già a fine gennaio e provenienti da Wuhan, in Cina, primo epicentro dell’epidemia di Sars-Cov-2, parlavano di un tasso di mortalità altissimo nella popolazione anziana e affetta da più patologie croniche. Si stimava un tasso di mortalità, sopra agli ottant’anni, pari al 28%: numeri mostruosi se proiettati su questa fetta di popolazione. Era perciò sotto gli occhi di tutti, Organizzazione Mondiale della Sanità in primis, che il virus avrebbe trovato terreno fertile — e nel medesimo tempo devastante — proprio presso le strutture ospitanti persone anziane, perlopiù in luoghi comunitari, in cui evitare l’assembramento, per la natura stessa di questo genere di servizi, sarebbe stato davvero difficile.
Tutti forse hanno responsabilità, ma nessuno alla fine avrà il coraggio di assumersele rendendo così vano lo sforzo di tutti coloro i quali chiedevano solo un po’ di giustizia, unita alla sete di chiarezza: non per accanirsi, ma per cercare di rendere meno pesante il dolore della perdita di qualcuno di caro.
La triade imprescindibile dei servizi alla persona anziana — ospite, famiglia, servizio — ha subito un grande trauma legato alla fiducia: da luoghi di cura in cui riporre fiducia affidando al servizio il proprio caro, si sono trasformati in luoghi di sfiducia, dai quali prendere le distanze. La rabbia, la disperazione, il dolore, l’irrazionalità hanno preso piede via via, sempre di più, nei cuori di molti. È un riflesso normale, ma che ha sicuramente lacerato e ferito tante sicurezze che prima davamo per scontate.
Questa giornata simbolica è il simbolo per antonomasia di tutto ciò che è passato e si è passato sulla propria pelle e su quella dei propri cari, pagando anche con il carissimo prezzo della vita umana, il dono più prezioso di tutti.
Ognuno a suo modo, oggi, prova a sanare quelle dolorosissime ferite inflitte da questa emergenza sanitaria e da ciò che da essa ne è scaturito.
Il dolore è tanto, tantissimo. Ma forse è proprio da questo dolore che abbiamo l’occasione per ricominciare, di ricucire la rete dei rapporti e delle relazioni, per ripensare a tutto ciò che si è fatto di buono e a tutto ciò che si sarebbe potuto fare meglio. Ricominciare vuol dire prendere i pezzi del puzzle, per quanto doloroso, rimettendoli insieme in una maniera che ci possa far guardare avanti.
Sant’Agostino dice che «coloro che amiamo e che abbiamo perduto non sono più dov’erano, ma sono ovunque noi siamo».
Qui all’Oasi San Francesco vogliamo pensare e pregare per tutte le vittime del Covid-19, in particolare per i nostri ospiti che ci hanno lasciato durante quel terribile periodo, in questo modo, con la certezza che siano tutti qui in mezzo a noi, con la forza dell’Amore, a combattere questa battaglia.
Come ci ha voluto dire una nostra carissima ospite oggi, mentre cercavamo di parlare con alcuni di loro proprio di questa particolare giornata, «c’è poco da dire ma tanto da ascoltare».
Un’altra signora ci ha invece detto che «il cambiamento è un pensiero che modifica le parole e le azioni».
Che la forza del cambiamento possa allora partire proprio da questo pensiero: un pensiero ricolmo di speranza e di tanta voglia di fare meglio.
Una foglia, prima di diventare una splendida foglia, è una piccola e apparentemente insignificante gemma. Un essere umano, prima di assumere sembianze umane, è un piccolissimo ed apparentemente insignificante embrione. Eppure la potenza delle cose, la potenza della Vita sta tutta lì: in quelle cose apparentemente piccole ed apparentemente insignificanti agli occhi del mondo.
Ripartiamo dalle cose piccole, piccolissime ed apparentemente insignificanti e sicuramente, con tanta pazienza e perseveranza, saremo in grado di fare grandi cose.
(Oasi di San Francesco, Cereggio)
Complimenti per il bellissimo e profondo articolo!
Valterino Malagoli