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“Mimosa d’Appennino” (racconto di Valeria Ronchini)

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Era l’alba gelida di un giorno di febbraio. Faceva così freddo che non sentiva più le mani, nonostante i guanti di lana doppia che sua nonna le aveva confezionato.
Si era alzata così presto perché toccava a lei portare il latte giù al crocicchio.
Doveva farlo prima di scendere al paese a lavorare. Ogni giorno, infatti, tranne la domenica, si presentava alla sarta che abitava in canonica e che cuciva gli abiti talari per i preti del seminario. Quella vecchia donna severa e dura aveva
tanto insistito con il monsignore per avere un’aiutante, che avevano dovuto concedergliela. ‘Ma non la pagheremo che cinque centesimi a settimana!’ aveva aggiunto quello. La vecchia aveva accettato senza ribattere, ben sapendo in cuor suo che la ragazzetta avrebbe comunque portato a casa di che sfamare sua madre ed i suoi tre fratelli.
La piccola entrava dal retro, passando per le cucine a testa bassa. Conosceva come ci si doveva comportare, e mai l’avevano ripresa. Si sedeva poi di fianco al grande camino sempre acceso, beveva il latte che le davano, inzuppandovi un pezzo di pane vecchio, e aspettava. La vecchia sarta arrivava poco dopo, con i vestiti da riparare, e grandi pezzi di stoffa nera. Le mostrava come si ricuciva un orlo, come si aggiustava un’asola, come si doveva fare perché un bottone
rimanesse ben saldo al suo posto. Poi, quando restavano sole – di solito dalle nove alle undici del mattino, e dalle tre alle cinque del pomeriggio – le insegnava a scrivere e a leggere, a far di conto e a recitare certe poesie a memoria. Tutto succedeva nel più naturale modo possibile, senza traumi né patemi, e cercando di far piano. Non si doveva sentire la loro voce. Verso sera, poco prima di congedare la sua allieva, la sarta infilava di nascosto in quel suo piccolo sacco un po’ di pane e formaggio, qualche volta un po’ di frutta, o dei pezzetti di carne, gli avanzi dei pasti dei prelati. La ragazzetta cenava poi con lei, così quel piccolo tesoro restava per la sua famiglia e lei ne era felice. Prima dell’imbrunire si avviava dunque verso casa. Ma la cosa che più era strana, che più la lasciava incredula, era il dover sempre allungare la strada del ritorno per fermarsi dal maniscalco a recitar la poesia imparata quel giorno. Non capiva proprio il senso di quella cosa. Comunque, lei arrivava là alla solita ora, bussava, entrava e recitava. Lui le dava una mela, la ringraziava e la rispediva a casa. Poi subito correva per le vie del paese. ‘Chissà dove andrà così di fretta’ si chiedeva la piccola. Una sera si era nascosta dietro un muro e l’aveva visto arrivare fin dal barbiere, agitare le braccia e fare una faccia spaventata. Assieme poi erano spariti in osteria, uscendone poco dopo con altri uomini, che avevano i fucili sulle spalle.
Tornata a casa, l’aveva detto a sua madre, ma questa l’aveva tranquillizzata, e lei si era subito dimenticata tutto. L’anno seguente, a marzo, il maniscalco le diede ogni volta un ramo di mimosa. Quello strano fiore non le piaceva affatto per via del puzzo che emanava, ma era di un bel giallo che metteva allegria, e la mamma era sempre tanto contenta quando lo vedeva. Lei non capiva il senso di quel gesto, ma aveva il sospetto che fosse una specie di segnale. Si era infatti accorta di un comportamento a dir poco strano: quando gli uomini correvano per la strada, fucili pronti, dopo che lei era uscita dalla casa del maniscalco, e la incrociavano, le lanciavano chi un sorriso, chi un saluto con la mano, chi le faceva l’occhiolino.
Cominciò così a ripensare alle poesie che recitava. Tutte erano come quelle dei bei libri che le faceva vedere la vecchia sarta, di nascosto. Ma tutte avevano sempre un’ultima frase che in quei libri proprio non c’era.
Quel giorno, una volta seduta al lavoro e sola con lei, chiese alla sua maestra il perché di quella stranezza. Questa capì che era giunto il tempo di renderla consapevole. Le spiegò che per tutto quel tempo, quasi due anni, lei aveva
portato messaggi alla resistenza. Le poesie dei grandi autori non erano che il modo di trasmettere informazioni in codice; un codice che gli adulti del paese avevano creato appositamente. L’ultima frase era il messaggio più importante, e la sarta ne era l’autrice. Quel metodo così fantasioso e insolito aveva aiutato molti uomini a non finire nelle imboscate del nemico. Servirsi di una bimba aveva evitato di insospettire chiunque ne fosse estraneo, e comunque se l’avessero fatta parlare lei avrebbe potuto solo recitar poesie così lunghe che l’avrebbero
fermata, ben prima di arrivare al passo pericoloso. La mela – prima – e la mimosa – poi – non erano che un segnale per poterla riconoscere e proteggere, all’occorrenza.
Una staffetta di guerra, a sua insaputa!
‘Ora che conosci la verità, non potremo più continuare. Inventeremo qualcos’altro. Potresti lasciarti sfuggire una parola, o comportarti in qualche strano modo che potrebbe destar sospetti e far saltare tutto’ - disse la donna.
Fu dura e rude, come sempre. La ragazzetta ci si era abituata e capiva bene la gravità della situazione.
‘Io non smetterò per nulla al mondo. Se è servito a salvare gli uomini del paese è una cosa buona. Non sono bugie quelle che ho detto, e hanno aiutato gli altri.
E io voglio aiutare’ fu la sua ferma e decisa reazione.
Gli occhi della sarta si bagnarono di commozione ed orgoglio.
Fu proprio così che successe, per tutto l’anno a seguire. Un ramo di mimosa essiccato la accompagnò fin quasi al suoi dodici anni.

La sarta di A. Bresciani
La sarta di A. Bresciani

Fu il giorno prima del suo compleanno che rischiò di venir catturata da un drappello di nemici in fuga. La fermarono, e in quella strana lingua che parlavano le dissero qualcosa; lei capì che volevano sapere il suo nome, ma finse
ignoranza. Mostrò loro il rametto giallo e disse ‘Mimosa d’Appennino’. Quelli la guardarono storto e per un momento la giovinetta credette che fosse finita.
All’improvviso però una serie di colpi partì dal limitare del bosco lì vicino, loro si distrassero e corsero in quella direzione, lasciandola lì a tremare di terrore.
Nonostante il brutto incontro, era stata scaltra e pronta: quel che aveva detto ad alta voce era il suo nome in codice, ma ben sapeva che non era cosa intuibile per un forestiero.
Qualche mese dopo la guerra finì, e lei continuò ad imparare il mestiere di sarta.
Alla sua maggiore età aprì poi un piccolo negozio in paese e si fece un nome perché era davvero brava, ma soprattutto perché riparava gratis i vestiti di quei suoi salvatori divenuti ormai vecchi e cari amici.
Volle solo che piantassero un albero di mimosa nell’aiuola all’ingresso del negozio. La pianta crebbe rigogliosa, annunciando ogni anno la primavera con la sua grande e giallissima chioma.
Forte e libera come il giorno d’aprile in cui la giovine aveva smesso di portar messaggi.

 

Valeria Ronchini

Il brano si è aggiudicato il terzo posto del Premio Crovi 2019, sezione racconto inedito.

Così si esprime l'autrice Valeria Ronchini: "Il mio modesto omaggio a tutte le staffette donne, di qualunque appennino, di qualunque battaglia o guerra. Al loro coraggio e fermezza, alla loro paura qui dipinta di giallo mimosa, a quanto furono sprovvedute e meravigliose".