Questa rubrica vuole essere un luogo di spunti per stimolare una riflessione corale e collettiva su temi di attualità. L’idea è quella di partire dal nostro territorio verso cerchi più ampi, o vice versa ascoltare gli echi lontani e portarceli vicini.
Ogni giorno mi arrivano domande che risuonano “sto male, non ne posso più, quindi che si fa?”
Premetto che noi psicologi non abbiamo soluzioni da elargire, mai, tanto meno in questa situazione.
Le soluzioni si trovano insieme al paziente.
In questo caso, possiamo solo riflettere sugli effetti palesi di questa situazione che coinvolge tutti noi, più o meno.
Dal mio piccolo osservatorio posso riscontrare che questa pandemia ha portato a una modifica nei comportamenti che ancora non sappiamo se saranno reversibili o no.
Eccone alcuni.
Relazioni.
La libertà limitata e le restrizioni della socialità acuiscono il senso di isolamento e di solitudine.
Ansia e stati depressivi.
Questo comporta un’accelerazione nelle frequentazioni. “Facciamo insieme il lockdown, andiamo a vivere insieme altrimenti non ci possiamo vedere”.
Bruciare le tappe impedisce la conoscenza graduale, con conseguenze disastrose. Se vale in generale, ora ancora di più.
La risignificazione delle amicizie.
Persone che si credevano amiche spariscono, magari proprio durante l’infezione. Presunti amici per la pelle non alzano nemmeno il telefono per chiedere un semplice come va. Mentre altre persone considerate conoscenti si rivelano presenti e preziose.
Le pretese.
Si rimpiangono occasioni che prima si davano per dovute e scontate. Viaggiare, spostarsi, organizzare una cena. In alcuni ciò crea angoscia e frustrazione, al punto da bypassare i rischi e farlo lo stesso. Il pericolo di contagiare i familiari non è considerato prioritario. Per le persone più ligie, il rischio è un’esasperazione dell’isolamento che può sfociare in fobia sociale.
La flessibilità e la capacità di adattamento sembrano essere fattori protettivi nei confronti della depressione. Unitamente all’espressione creativa.
Non potendo viaggiare fuori, la limitazione può essere un’occasione per conoscere sé stessi, approfondire tutto quello che è rimasto inesplorato, e attingere al proprio bacino di creatività.
Le risorse.
Chi è in contatto con il proprio mondo interiore è avvantaggiato e vive questo momento storico come immensa occasione.
Chi basava la propria vita soprattutto all’esterno non è abituato a contattare le risorse interiori.
Avere la possibilità di vivere a stretto contatto con la natura di certo è una benedizione.
Un dato di fatto evidente è che la pandemia ha sdoganato il diritto di chiedere un aiuto psicologico. Se prima nell’immaginario collettivo chi andava dallo psicologo era quello “coi problemi” che non ce la faceva da solo, ora siamo tutti livellati e autorizzati a stare male, uniti in un unico destino comune.
(Ameya Canovi *)
*Ameya Gabriella Canovi è PhD, docente e psicologa, si occupa di relazioni e dipendenze affettive. Da poco ha terminato un dottorato di ricerca in ambito della psicologia dell’educazione studiando le emozioni in classe. Ha un sito e una pagina Facebook “Di troppo amore”.
1 COMMENT
Durante i periodi e le fasi di restrizione da pandemia, mi è parso di osservare una pronunciata differenziazione nei nostri atteggiamenti e nostre reazioni, da una scala di insofferenze e disagi fino all’adattamento, e fors’anche sino ad un rassegnato fatalismo.
Al riguardo entrano verosimilmente in gioco fattori “oggettivi”, come l’essere o meno in età lavorativa, e c’entra anche il tipo di attività svolta, perché chi usufruisce più di altri del cosiddetto “ombrello sociale” è verosimilmente meno preoccupato sul piano economico.
Ma a me pare che abbia contato non poco anche la “soggettività” perché ho notato persone affrontare questa circostanza con il loro solito spirito, ossia quello col quale le ho viste comportarsi nella “normalità” o di fronte ad imprevisti vari (hanno cioè “retto bene”).
Spesso si vorrebbe che in noi prevalesse sempre e comunque la razionalità, così da rendere più omogenea e prevedibile, e anche gestibile, la vita delle comunità, ma poi semmai accade che la soggettività, con le sue emozioni/suggestioni, abbia il sopravvento.
Il che può essere anche una risorsa perché conferisce a taluni di noi una flessibilità che permette loro di saper trovare idonee risposte nei vari e diversi frangenti – come ho notato anche nella fattispecie – delle quali può poi avvalersi e beneficiare la rispettiva comunità.
Va ovviamente scongiurato un eccesso di soggettività, perché nuoce alla tenuta di una collettività, ma il rischio può essere evitato se il tutto avviene dentro un perimetro di regole comuni, il cui scopo è quello di far sì che la nostra soggettività non porti danno ad altri.
Ma non dovrebbe però succedere che tali regole arrivino a scoraggiare e spegnere le individualità, perché cadremmo allora nella omologazione, che può esser forse gradita a chi punterebbe ad uniformarci, mentre a me sembra un “traguardo” per niente auspicabile.
Durante i periodi e le fasi di restrizione da pandemia, mi è parso di osservare una pronunciata differenziazione nei nostri atteggiamenti e nostre reazioni, da una scala di insofferenze e disagi fino all’adattamento, e fors’anche sino ad un rassegnato fatalismo.
Al riguardo entrano verosimilmente in gioco fattori “oggettivi”, come l’essere o meno in età lavorativa, e c’entra anche il tipo di attività svolta, perché chi usufruisce più di altri del cosiddetto “ombrello sociale” è verosimilmente meno preoccupato sul piano economico.
Ma a me pare che abbia contato non poco anche la “soggettività” perché ho notato persone affrontare questa circostanza con il loro solito spirito, ossia quello col quale le ho viste comportarsi nella “normalità” o di fronte ad imprevisti vari (hanno cioè “retto bene”).
Spesso si vorrebbe che in noi prevalesse sempre e comunque la razionalità, così da rendere più omogenea e prevedibile, e anche gestibile, la vita delle comunità, ma poi semmai accade che la soggettività, con le sue emozioni/suggestioni, abbia il sopravvento.
Il che può essere anche una risorsa perché conferisce a taluni di noi una flessibilità che permette loro di saper trovare idonee risposte nei vari e diversi frangenti – come ho notato anche nella fattispecie – delle quali può poi avvalersi e beneficiare la rispettiva comunità.
Va ovviamente scongiurato un eccesso di soggettività, perché nuoce alla tenuta di una collettività, ma il rischio può essere evitato se il tutto avviene dentro un perimetro di regole comuni, il cui scopo è quello di far sì che la nostra soggettività non porti danno ad altri.
Ma non dovrebbe però succedere che tali regole arrivino a scoraggiare e spegnere le individualità, perché cadremmo allora nella omologazione, che può esser forse gradita a chi punterebbe ad uniformarci, mentre a me sembra un “traguardo” per niente auspicabile.
P.B. 23.01.2021
P.B.