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Cronache reggiane. Pestilenze del passato

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Pestilenze e colera tra scienza e carità

Una grida reggiana contro la peste del 1630

Dai tempi di Galeno ci si è chiesto quale sia la causa delle pestilenze e della loro contagiosità e la scienza del tempo risponde essere l'aria comune che tutti respiriamo. Essendo comune l'aria respirata in un paese o in una regione, diventa comune e condivisa la malattia fra tutti gli abitanti del territorio, ed eccoci allora alla epidemia o, come specifica Fernelio, il Galeno dell'età moderna (nato a Mont-Didier, Amiens, nel 1486), alla pandemia, cioè alla malattia contemporanea di tutto un popolo. E specifica, rifacendosi a Ippocrate: «È certo che i contagi nascono nell'aria quando questa va in putrefazione. Quando l'aria è piena di quegli inquinanti che offendono la natura umana, è allora che gli uomini si ammalano» e – chiarisce – si trasmettono l'un altro la malattia, soprattutto per contatto, come una mela marcia fa marcire la mela che le è accanto.
Questo ci spiega perché, fin dalla più remota antichità, il primo mezzo per difendersi dalle varie pestilenze era quello di fuggire dal luogo infetto e di isolarsi per quanto possibile dai vicini per paura del contagio. Ma fuggiva chi poteva, chi aveva mezzi e ville di campagna come vediamo al tempo del Boccaccio. Chi non poteva restava sul luogo e moriva dal contagio. Si pensi alla grande pestilenza del 1373, quando Barnabò Visconti si rifugia nelle sue ville in mezzo ai boschi e ordina al podestà di Reggio «che appena in una persona si manifestasse lieve segno del male, la si portasse nei cascinali di campagna o ne' boschi e là si lasciasse fin che fosse morta o guarita».
C'era una scienza, in tanta parte valida ancor oggi. Ma dov'era la solidarietà? dove la carità cristiana?

Gli anni 1373 e 1374 sono gli anni anche della grande pestilenza – amplificata dalle guerre e dalle carestie locali – che affliggono la montagna reggiana e che vedono l'intervento del vescovo Pinotti delegare i suoi poteri sui casi "riservati" al parroco di Busana, delegare le sepolture alle cappelle plebane e non più alla sola pieve, adottare tutte quelle misure spirituali e temporali che fanno di lui uno dei vescovi più vicini alla popolazione nei tempi delle maggiori calamità. Possiamo dire che, accanto alla salvezza dei sani, egli pone come irrinunciabile la cura dei malati.
Bloccare i movimenti della popolazione perché è con le persone che viaggia il contagio; isolare i contagiati: ecco le misure che le autorità civili reggiane adottano per contrastare la grande peste che colpisce soprattutto la valle padana dal 1630 al 1632. A Reggio e in tutto il territorio del Ducato, a cura dell'Ufficio della Sanità viene affissa e pubblicata la grida dal titolo Ordini et bandi in materia di contaggio. Non vi campeggia il consueto stemma ducale, ma l'immagine della Madonna della Ghiara. È un fatto significativo: rende visivamente il concetto che accanto alla scienza, e per la sua stessa piena applicazione, deve porsi anche la carità.
Rigide le condizioni per le persone, gli animali e le cose che entrano nel territorio. Le persone devono essere sane e ciò deve risultare dalla "fede di sanità" rilasciata dalle autorità del paese di provenienza da cui risulti innanzi tutto l'identità; poi che non vengano, o non li abbiano attraversati, da paesi infetti; che la fede stessa non rechi segni di manomissione; che contenga nome e descrizione degli accompagnatori, degli animali al seguito; che indichi i mezzi con i quali si viaggia. Ogni minimo sospetto implica il divieto assoluto di ingresso. Poiché il dubbio è insito nella qualità stessa delle persone, sono implicitamente allontanati gli zingari, i "respinti" di sempre.
Strumento di controllo del movimento delle persone sono i cordoni di sanità, ovvero posti di blocco ("rastelli") istituiti sia sui confini del ducato, sia nei luoghi di passaggio obbligati, sia intorno ai paesi e borghi in cui si sia manifestato il contagio. La grida stabilisce le norme da osservarsi e da farsi osservare dagli «ufficiali deputati alla custodia de' passi» «sotto pena della vita e della [confisca e distruzione] della robba».
Sono stabilite perfino le distanze da tenere tra persona e persona: «Non tocchino i viandanti, e non se gli accostino se non tanto quanto basta per udirli et vederli distintamente [...]. Non ricevano le fedi di sanità altrimente che in cima a una canna, e per la fessura d'una canna longa, e prima di leggerle le facciano passare sopra il fuoco e ben purgate. Quando capitarano lettere, prima di toccarle in altro modo che per la cima d'una canna, le abbronzironanno e purgaranno bene con profumi et aceto».

Tutti gli spostamenti devono farsi sulle strade principali, poste sotto il controllo dei militari. Le strade secondarie restano chiuse e se i contadini vi scorgono qualche passante devono subito correre a suonare le campane a martello. Le pene economiche sono poche, oltre il sequestro di beni e merci. Prevale, per quasi tutte le trasgressioni, la pena di morte.

Più sul particolare vanno le disposizioni sanitarie richieste dai medici trasformati in commissari di sanità. Un certo dottor Antonio Morelli, inviato al Cerreto delle Alpi nel luglio 1632, via via che sale alla destinazione prende atto di altre situazioni di diffusione della peste. A Carpineti scopre che la peste è stata diffusa dalla frequenza al mercato; che il contagio a Carpineti, Felina, Leguigno e Sarzano è stata portato da chi era andato a mietere il grano al Traghettino o nei grossi poderi di Scandiano. Da qui i suoi ordini ai podestà locali che, nella loro sostanzialità, appaiono ancora del tutto attuali: pubblicare e ripubblicare «le gride et ordini della Sanità per ravvivarne la memoria à i sudditi» e farne ricordare le pene; separare gli infetti e i semplici sospetti dai sani ponendoli sotto guardia militare; indagare sulla catena dei contatti per riuscire a troncarla; provvedere alla cura dei malati visitandoli seppure a una certa distanza; sospendere i mercati e i luoghi di assembramento, comprese le celebrazioni religiose; bloccare i movimenti sul territorio mediante la forza militare; effettuare la purificazione degli ambienti infetti. Nei casi di più grave contagio si procede senza mezze misure come a Marola dove, morta l'intera famiglia di un mezzadro dell'abbazia, s'incendia la casa e sotto le sue macerie si seppelliscono i cadaveri.

La scienza si è sempre prestata alla ricerca dei mezzi di prevenzione e di cura che, ancora per tutto l'Ottocento, hanno avuto il loro cardine nelle sostanze "forti", dall'aceto agli aromi, ai fumi di zolfo e, infine, alla calce viva. Nasce anche la maschera in quella curiosa forma del naso allungato che null'altro conteneva che aglio, canfora, aceto o altri aromi forti.
In questo panorama emerge la carità cristiana; dai parroci che benedicono morti e morenti, che al capezzale degli infetti raccolgono le loro ultime parole, ai religiosi e alle religiose che, volontariamente, si rinchiudono nei lazzaretti per curare i malati, pronti a morire con loro. Tra questi, nella peste del 1630, come nelle successive, si distinguono i Cappuccini, che ritengono ovvio, scontato e connaturato alla loro vocazione l'offerta della loro vita in servizio degli appestati. Il padre Cristoforo dei Promessi Sposi che muore nel servizio degli appestati diventa un simbolo dei tanti suoi confratelli morti come lui.
Reggio può ricordare, in proposito, padre Gabriello da Reggio. Gli Annali Cappuccini, dopo averlo definito «uomo di intera perfezione, di continua orazione e di ammirabile astinenza», narrano come, saputo che nella località di Fusino imperversava la peste, vi si recò subito con due confratelli in aiuto alla popolazione, rimasta priva di ogni sacerdote e di ogni altro soccorso. Conscio del pericolo, «cominciò subito a visitare e riconoscere tutti gli infetti, non mai ritirandosi, né egli né i suoi compagni, da veruna fatica e pericolo della propria vita per arrecar giovamento alle anime insieme ed alli corpi dei poveri languenti, insinché, sopraggiunti tutti dal medesimo pestilenziale morbo, ottennero con una generosa morte l’eterno premio della loro esemplarissima vita».

Se si approfondisce la storia della Chiesa reggiana, si scoprono tante altre figure di religiosi che ritengono normale e pertinente al loro compito mettere a rischio la propria vita per essere vicini ai loro fedeli sofferenti e procurare loro ogni possibile sollievo materiale e spirituale.
Lo fa il vescovo Guido Rocca (1873-1866) il cui ingresso in diocesi coincide con una esplosione di colera, soprattutto in pianura. Sorprende che, incurante di rischi personali, vada a visitare il lazzaretto di Cadelbosco, uno dei primi e più grossi focolai dell’epidemia, si intrattenga con i malati nelle loro stesse case e lasci loro copiosi aiuti per superare momenti quanto mai difficili.
«A sì bell’atto niuno elogio è pari – scrive L’Italia Centrale – e noi lo narriamo, forse offendendo la modestia del coraggioso prelato, affinché i buoni si confortino nel pensiero che non è ancor spento il sacro fuoco della carità evangelica, e prendano animo ad imitare il nobile esempio, e i poveri afflitti si rincorino vedendo che di loro si prendono così amorevoli e sollecite cure».

Altre visite fa a Montecchio, tornando più volte in entrambi i luoghi, accostandosi sempre al letto dei contagiati, anche per dare ai suoi sacerdoti un esempio di coraggio e di dedizione. E degno di lui è don Domenico Antichi, rettore di Campolungo. Nel 1884 l'epidemia di colera – detto "lo zingaro" per il continuo apparire qui e là tra pianura e montagna – colpisce con particolare durezza la sua parrocchia che nel giro di pochi giorni ha 52 colpiti, "36 circa" dei quali muoiono. Il paese è circondato da un cordone di bersaglieri. L'impressione della gente è che chi vi è dentro sia abbandonato al suo destino. In realtà, se per i contagiati non vi sono ancora medicine specifiche che salvino la vita, vi sono tre persone che rimangono vicine a loro. Il medico condotto dottor Pignedoli, il parroco e una sua collaboratrice.
Il 7 novembre 1884 scrive il quotidiano di Reggio L'Italia Centrale, organo in quel momento di un violento anticlericalismo: «Se meritano di essere segnalati quelli che nella circostanza in cui infieriva il colera nel nostro comune adempirono al loro dovere, certo deve essere tra i primi annoverato il sacerdote don Antichi Domenico rettore di Campolungo, ove il morbo ha fatto strage più che in altre località. Premurosissimo accorreva a soccorrere i colpiti, prestando loro aiuto e conforto, e mettendosi a tal uopo in pieno accordo al Comune, e col Comitato adempiva volontariamente con zelo ed imparzialità le affidategli incombenze. Accetti quindi un attestato di lode e stima dai suoi parrocchiani ed amici che giustamente gli è dovuto come sacerdote e cittadino».

Insieme a lui e al dottor Pignedoli, il 25 novembre seguente, il giornale ricorda anche Anna Simonini, detta la Sartina: «Questa eroina correva spontaneamente ove più infieriva il morbo a portare le sue cure indefesse e pazienti, a porgere parole di conforto e di cristiana rassegnazione ai morenti e alle infelici loro famiglie. Essa assistette quasi tutti i colpiti e, durante l'intero corso dell'epidemia, passò continuamente dal capezzale del moribondo alla casa di contumacia e viceversa. Io non ti conosco, o anima generosa e santa, ma so apprezzarti qual meriti. Se fu la fede cristiana che ti fece mettere a repentaglio la vita, puoi andar sicura di avere, non a chiacchiere ma a fatti, amato il prossimo tuo come e più di te stessa. Se fu amore dell'umana famiglia sofferente, vivi certa che quelli che ti conoscono e sanno la tua opera generosa, serberanno eterna ammirazione e gratitudine a te».

L'ultimo cordone sanitario che la storia ricorda è quello di Garfagnolo del 1911, esploso nelle borgate di Cerreto, Regnola e Cà di Regnola, portatovi – si diceva – da una donna di servizio fuggita da Genova dove il morbo infuriava. In pochi giorni i contagiati sono 21 e i 9 i morti. La virulenza pare indomabile tanto che la borgata viene subito chiusa da un cordone di carabinieri. E questa appare la misura determinante a impedire l'allargarsi del contagio. Contemporaneamente si lavora per spegnerlo all'interno del cordone. Si mobilita la Croce Rossa. Tra i primi soccorritori il notaio Giuseppe Micheli di Parma, politico cattolico emergente, e lo stesso vescovo Brettoni che si reca in visita sul posto. Purtroppo, la politica del tempo entra nel caso e ne tenta intentabili strumentalizzazioni.
Accanto ai morti, ancora una volta emerge la figura di un prete straordinario: don Giuseppe Romei. Egli offre la sua casa, nella quale si era ritirato dopo che il vescovo Marchi lo aveva dimesso da rettore del seminario di Marola, perché diventi il quartier generale dei soccorsi ai colerosi. Aveva solo 58 anni, ma era già pesantemente ammalato (morirà tre anni dopo). Dare la casa era ciò che poteva fare e lo fece come la cosa più naturale per un cristiano.

Giuseppe Giovanelli (La Libertà 01/04/2020)

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