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Anche l’aria e il sole, dietro le barricate. Corrispondenze di Fabio Gaccioli ai tempi del #Coronavirus

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QUELLO CHE SO DI NOI/ CORRISPONDENZE

 Anche l’aria e il sole, dietro le barricate

 

Di: Fabio Gaccioli

 

È dalle otto questa mattina che la famiglia di Sinti che ci abita di fronte sta viaggiando su e giù dal loro appartamento al secondo piano, portando fuori di tutto: borse, valige, lampade, coperte, persino la gabbietta di un uccellino. Hanno stipato due macchine di roba, poi ci si sono infilati dentro e sono schizzati fuori dall’arco su via Filzi con il pepe al culo.

Io e Ilaria siamo rimasti a guardarli attraverso le tendine della finestra, senza farci notare troppo, bevendo il primo caffè.

- Sembra quasi che stiano scappando.

È la mattina del 9 marzo 2020, lunedì. La città si sveglia, o per meglio dire, apre gli occhi su un cielo pallido attraverso cui filtra il disco bianco di un sole cauto, in un certo senso, se mi passate il termine, quasi lunare.

Sulla panchina sotto la finestra Mario si è già messo a seminare briciole di pane raffermo. Una colonia di piccioni lo circonda beccando e svolazzando. Sono gli unici, al momento, a fregarsene del metro di distanza. O quasi. Fino a ieri le piste da sci sulla Paganella erano prese d’assalto dai turisti, la maggior parte provenienti dalle zone rosse e gialle (Emilia compresa) che stanno trasformando i vecchi confini regionali in barriere infedeli contro la pressione del grande contagio. Il presidente della provincia autonoma si è deciso soltanto poco fa ad emettere un’ordinanza di chiusura anche, e soprattutto, grazie alla pressione di alcuni operatori della val di Sole, preoccupati dal numero di contagi in aumento. Un passaggio decisivo nella percezione del pericolo, se si considera che solo qualche giorno fa lo stesso presidente, sponsorizzando una serie di spot, invitava i turisti a visitare il Trentino, senza timore. Nel frattempo, mentre scrivo queste note, dall’ospedale Santa Chiara arrivano le voci dei lavoratori impiegati al pronto soccorso, inferociti dall’elevato numero di infortuni che si sono succeduti tra sabato e domenica sulle piste da sci, e che stanno complicando, e non poco, il loro lavoro di contrasto al Covid 19.

Penso a mia sorella, giù in ospedale a Castelnovo, sbattuta, insieme a tutti gli altri, in prima linea a fronteggiare l’emergenza peggiore da quando è nata la Repubblica, e a mio padre, sperduto tra le montagne selvatiche del mio Appennino. Con la chiusura della provincia e la situazione generale in continuo movimento, sono bloccato qui. Se partissi  molto probabilmente non potrei tornare indietro, e allora vivrei la stessa distanza dolorosa, però capovolta.

- Gira, volta, prilla, il comune rimane a Villa.

Me lo diceva sempre un compagno quando lavoravo in cartiera a Roteglia. Era il mio istruttore e condividevamo il viaggio dalla montagna alla bassa, alternandoci nel prendere la macchina. Era il 2008 e la fabbrica (già fallita una volta, poi rimessa in sesto) tirava avanti pescando dalla cassa integrazione e forzando contemporaneamente il personale agli straordinari per mantenere lo stesso livello di produttività, pur senza fare nuove assunzioni. Ho lavorato in quel posto per più di due anni, prima di litigare con il responsabile di magazzino e andarmene sbattendo la porta.

2008: la prima grande crisi finanziaria che ci è piombata addosso al giro di boa del nuovo secolo, nel passaggio dalla sua infanzia, non priva di incubi e traumi (il crollo delle torri gemelle, le manganellate nei denti all’ultima generazione ostile al nuovo capitalismo che per troppo tempo abbiamo interpretato, travisando, con la parola globalizzazione, in quella Genova tanto amata, tra le cui strade scorre buon sangue montanaro) alla sua adolescenza hi-tech, de-umanizzata, reificata, liberista e autoritaria, austera e dissipatrice, nichilista, asessuata e compulsivamente erotizzata, formalmente informatizzata e funzionalmente analfabeta, feroce e fragilissima… La prima grande crisi, dicevo, nel suo volgere, ha scavato all’osso la vita di questo paese.

C’è da chiedersi quanto osso rimane, oggi, ancora da scavare. In quegli anni fu come se, a un certo punto, si fosse messo a piovere palloni. Un po’ di gente, tra le alte sfere, ne approfittò per prenderne il maggior numero al balzo. E furono bravi a tenerseli stretti. Gli altri, tutti, si adattarono col tempo alle nuove regole del gioco.

Quattro anni dopo, nel 2012, la frustrazione degli sfollati nei campi, nell’Emilia sconvolta dal terremoto, si saldò con l’impazzimento politico, sociale ed economico: all’epoca, bisogna ricordarlo, si lottava contro lo spread, il rating, l’austerity, il default. Quando il presidente del consiglio, Mario Monti, tentò di trasformare il sisma in una passerella, venne preso a sputi in faccia dagli sfollati di sant’Agostino. Me lo ricordo bene.

Quell’anno il mostro non fu soltanto lo sciame sismico, o la grande crisi, ma lo spettro della povertà assoluta, una sorta di fine del mondo, per la classe media, di cui i paesi della bassa modenese e reggiana si sentivano la linea più avanzata.

Adesso su quella linea ci troviamo tutti.

 

Esco di casa verso le dieci perché devo portare il cappotto a far aggiustare. C’è un sarto su via Perini che fa lavoretti di questo tipo per pochi soldi. Il suo piccolo laboratorio si affaccia sulla strada. Tiene addosso la mascherina, mentre parliamo. Gli chiedo se anche lui ha paura. Finiamo per restare in chiacchiera più del solito. Mi assicura che al suo paese pregano tutti per l’Italia. Guardo i suoi grandi occhi nocciola, emozionati. Ho saputo che la Cina ci ha inviato non so quanti presidi sanitari, tipo mascherine e occhiali protettivi. Che anche dall’Africa stanno giungendo aiuti. Il nostro sistema sanitario, mentre i soliti ignoti afferravano le palle al balzo, e noi ci lasciavamo convincere che il nemico sarebbe arrivato dalle coste libiche, a bordo dei barconi, ha subìto tagli tremendi negli ultimi dieci anni. Per centrare la parità di bilancio senza tradire le leggi del mercato hanno disossato lo stato. Questo è il vero pericolo, il motivo per cui è tutto bloccato: il covid-19 non ammazza solo l’uomo, disintegra il suo sistema sociale ed economico. Sistema che, dopo vent’anni di liberismo sfrenato e politiche inutili, sta in piedi con il nastro da pacchi.

- Lo ha portato un Lombardo ricco. – Mi dice il sarto, e lo vedo che dietro la mascherina sta sorridendo / riso amaro, se vuoi, ma ci sta.

- Peggio. – Preciso io. – Lo ha portato un Tedesco ricco.

- Tedesco o Lombardo, sempre di ricchi si parla. – Chiosa lui, poi si fa improvvisamente serio – Mia figlia è italiana. È nata qui. È per questo che la mia famiglia prega per noi. Prega per tutti gli italiani.

Lascio il mio cappotto e mi metto a gironzolare per strada aspettandomi che qualche poliziotto mi sbatta faccia al muro da un momento all’altro. Invece non accade nulla. Le persone passeggiano come al solito, ma si fa molta attenzione a non creare capannelli. Ci teniamo tutti a distanza.

In Francia, dopo gli attentati di qualche anno fa, hanno dichiarato lo stato di emergenza. Da allora quello stato devono ancora scrollarselo di dosso. Continuo a pensare ai cugini d’oltralpe, al fatto che hanno messo a ferro e fuoco, per mesi, il loro paese, perché il governo aveva deciso di aumentare il prezzo del carburante, nel tentativo di avviare una serie di politiche così dette green. E la risposa di Macron (una specie di Renzi con la fissa per le milf) è stata applicare alle rivolte lo stesso stato di emergenza, anche questo un contagio per le democrazie, o forse non più: un normalissimo stadio endemico, ormai, un modo di essere virus.

Una cosa è chiara: da quando c’è il virus in circolazione, quello vero, il covid, l’aria è più buona. È tornata anche la neve. I livelli di inquinamento si abbassano, insieme alla temperatura. La pianura padana non è più una camera a gas. Tutt’al più una sauna di particelle cancerogene, ma si è visto di peggio quest’inverno. Viene da pensare che tutte le balle che ci raccontano sulla green economy e lo sviluppo sostenibile sono, per l’appunto, balle. Se pensiamo davvero di poter fare qualcosa per il pianeta continuando a fare esattamente quello che abbiamo fatto fino ad oggi, sbagliamo. Se pensiamo che il sistema, da solo, si auto-regolerà, come i mercati, magari aiutato dai mirabolanti passi in avanti della scienza (e si vede!) e delle nuove tecnologie, sbagliamo. Bisognerà, prima o poi, guardarci nello specchio e ammetterlo. D’altro canto non si inverte la rotta con qualche dichiarazione oppure lanciando sul mercato nuovi prodotti bio-degradabili. Cambiare (e cambieremo) sarà doloroso. E catastrofico, se ci rifiuteremo, se volteremo la testa dall’altra parte. Soprattutto se non avremo la lucidità di sguardo necessaria a individuare il vero pericolo, il vero nemico. In questo senso, questa del Covid non è che una prova generale. Teniamocela buona di conseguenza. Siamo chiamati a immaginare un mondo diverso. Bisognerà pur cominciare da qualche parte. Almeno proviamoci.

Mi siedo su una panchina e me ne pento. Il virus resta sugli oggetti, per aria, ovunque, per tempo indefinito. Tanto, ormai, ognuno dice la sua. Una volta tornato a casa dovrò scorticarmi la pelle per lavare via tutto. Ma tutto cosa, esattamente? Do tempo ancora un paio di settimane prima di vedere i santoni dell’apocalisse arringare le folle inferocite, come quel capellone che davanti al municipio di Bibbiano soffiava al vento le sue maledizioni. A proposito, perché nessuno parla più di Bibbiano? Bei tempi quelli…

Sul muro davanti alla panchina qualcuno ha scritto: Anche l’aria e il sole sono cose che si conquistano dietro le barricate. La cosa bella di questa città è che i muri parlano. E a volte ci prendono in pieno.

Quello che resterà nel tessuto sociale di questa brutta avventura; ecco di cosa dovremo già da ora preoccuparci.

Verranno i santoni dell’apocalisse e i manutentori dell’ordine, i dissipatori della paura e i generatori dell’odio. Verrà tutto quello che è già stato, che abbiamo già conosciuto. Che ci ha cambiato, piegandoci, abbruttendoci.

Teniamoci pronti. Restiamo umani.

E portiamoci anche l’aria e il sole, nelle future barricate. Perché appartengono a noi. A tutti noi.