Home Cultura La crudeltà, ovvero: la fòla dei gatti randagi

La crudeltà, ovvero: la fòla dei gatti randagi

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Oggi sono stato dal barbiere. Non dalla parrucchiera. Non dall’unisex. Dal barbiere. Si chiama Poldo, è un uomo gentile, lo si capisce dalle mani. Quando taglia sfiorano. Quando tocca il capo per spostarti a favore di forbice lo fa preciso, come misurasse a piombo. Non sa acconciare i capelli. Li taglia.

Poco o tanto, devi solo scegliere quello.

L’ultima volta che ho fatto questo pezzo di vicolo, da giù a su, ero un bambino timido che ammutoliva. Mia mamma, quando le donne venivano a casa in veglia, riferendosi a me diceva: “Dove lo metti sta.”

Passavo le serate a leggere storie.

All’epoca, nella casa vecchia, quella che ricordo prima dell’avvento del gas per il riscaldamento, la stanza principale era la cucina. Avevamo due stufe, per ammorbidire l’inverno. Una lì e l’altra nel corridoio. La sala grande era chiusa per non disperdere il calore. La usavamo solo d’estate, in inverno si trasformava in magazzino alimentare.

La sera, nei letti, mettevamo il prete. Mi ha sempre divertito il fatto che la gente abbia chiamato Prete un oggetto che serve per tenere in caldo un letto.

Cosi, mentre il prete languiva tra i coltroni, io e i miei ce ne stavamo al caldo, in cucina. Li, nelle ore della sera, mi tuffavo nella lettura delle storie. Me ne stavo zitto.

Ho un ricordo sensuale di quelle ore passate sotto la luce del lampadario basso sul tavolo di cucina. Le parole erano inchiostro vivo. Avevano una loro consistenza. Se ci passavo sopra il polpastrello le potevo sentire per quello che erano: piccole ferite sulla pagina. Come il morbido del sangue aggrumato dopo una sbucciatura.

Se non erano letture, erano giochi solitari con soldatini, oppure costruzioni di fiammiferi e stecchini per i denti. Riuscivo a starmene perfettamente zitto ed efficiente per intere serate. Per questo mia madre diceva: “Dove lo metti sta”. Ed era vero. Non avevo bisogno di molte attenzioni. Al contrario, mi bastava non essere disturbato.

In un certo senso, credo di essere sempre stato in grado di bastare a me stesso.

C’era un tizio, in paese, una volta, un certo Pini. I paesani lo chiamavano il professore perché sapeva leggere le carte catastali ed era prezioso quando si dovevano distribuire gli usi civici. Era un tizio lungo e magro, con i baffetti e il cappello. Faceva vita libera. Mia mamma lo guardava con disprezzo e lo chiamava Carlo Cotica. Di carnagione era negro come la cricca. Abitava nella borgata sotto al vecchio castagneto. In quella casa c’è poi morto di freddo, un inverno degli anni ottanta, perché di suo non aveva neanche la legna per la stufa. Quando gli uomini hanno sfondato la porta lo hanno trovato con le mosche della morte che gli uscivano dalla bocca. O almeno, così me l’hanno raccontata.

Ad ogni modo sto tizio era un gran conta fòle. Ce n’era una che raccontava a noi ragazzini che parlava di un caprone su una rupe a strapiombo con gli occhi rossi che noi dovevamo avvicinarci e lui, questo caprone di cui imitava lo sguardo e il respiro pesante, mentre saliva e scendeva con la voce per farci venire il caghetto, ci dava delle gran cornate per buttarci di sotto.

Tutto questo lo recitava rigorosamente in rima. Erano quartine tremende, le sue.

Un’altra storia che ci contava era quella del gatto dell’inferno, che era un gatto infuocato che rotolava giù dal fianco della collina della Colombara e chi lo vedeva moriva dalla paura, con i capelli bianchi e la bava alla bocca.

C’eravamo io, Marco, la Paola e la Giovanna. Io ero quello che si cagava sotto più di tutti.

Questo per dire che di storie ne trovavo nei libri ma anche fuori. C’era sempre qualcosa da dire e su cui ragionare.

Vi racconto questa, così ci capiamo meglio.

Non so per quale motivo, ma nel paese di Esse ai gatti non è concessa cittadinanza. Sto parlando dei randagi.

C’è stato un tempo in cui i ragazzi del paese li avevano presi di mira, e ne facevano fuori a manetta. Ci si divertivano, con i gatti, facendogli fare le fini più atroci.

Sto parlando sempre dei randagi.

Il paese di Esse è un paese di bracconieri e distillatori clandestini. Hanno continuato a bracconare e a distillare anche quando le condizioni di vita sono diventate migliori. Lo fanno, in un certo senso, per diritto di origine.

Gli abitanti del paese di Esse appartengono a una razza tra le più superbe e crudeli dell’intero Territorio. Tutta colpa delle tracce di un passato che il tempo ha eroso alla radice, ma che gli uomini hanno mantenuto con ostinazione.

Il Territorio è una micro-nazione di cui ci si accorge soltanto nel contro luce della globalizzazione. È nell’espansione eccessiva che rinascono i Territori, con il loro carico di morti e di rancore. Ai vivi si spalanca l’impotenza della vertigine, e si rivolgono ai morti per ottenere rassicurazioni.

Non sto più parlando dei randagi.

Prendete ad esempio il calcio. Il gioco del calcio giocato sul Territorio è come una chiesa costruita su un antico luogo di culto pagano. Sostituisce, ma non sottrae. Non ho mai conosciuto nessuno tra i Nativi del Territorio realmente capace di appassionarsi al gioco del calcio. Tranne i virtuosi, forse, o i sinceramente convertiti. Ma anche tra loro, tra i fanatici, non si riesce a trovare il talento schietto. Santi volenterosi, vero, ma azzoppati, capaci di buona volontà, certo, ma inevitabilmente mediocri.

 

Qualche tempo fa mi è capitato di vedere una fotografia stampata su un calendario di una delle prime edizioni del Torneo di calcio del Territorio. In questa fotografia si vedono due giocatori, con addosso una specie di casacca, che saltano all’unisono per colpire di testa una palla piuttosto mal messa. Le smorfie animalesche sul viso suggeriscono che non sia proprio la palla l’obiettivo dello slancio, ma il darsi una cornata feroce. Il campo da calcio, poi, non è un campo da calcio. Nel senso che manca l’erba. Al suo posto c’è un terreno battuto ricavato da quella che sembra essere una cava di sassi.

Il gioco del calcio è servito al Territorio per unificarsi con il resto del paese, per strapparlo all’isolamento. Prima del gioco del calcio i paesi del territorio si contendevano di tutto: boschi, donne, terreni. Non so quanto possa essere durato, ma sono sempre più convinto che il Territorio abbia conservato più di altri luoghi (per più tempo, intendo dire) una tradizione di tipo feudale.

Il paese di Esse odiava il paese di C. il paese di C. si alleava con il paese di B. che odiava il paese di Esse che odiava il paese di B. e di C.

Tracce di questo feudalesimo le ho viste, ad esempio, nelle risse fenomenali che scaturivano nelle balere e nei bar. E nel gioco del calcio. Dove i giocatori invece che inseguire la palla inseguivano e abbattevano l’avversario.

Per un breve periodo ho giocato anche io nel Torneo come interno, cioè come Nativo. Il resto della squadra era esterno, cioè extra-territoriale. Questo perché gli interni scarseggiavano (oggi devono essersi estinti) quindi si andava a pescare i giocatori altrove.

Per avere una squadra come si deve, che sapesse giocare, era necessario fare campagna acquisti in città. I cittadini conoscevano il gioco. Si divertivano tra di loro.

Noi entravamo il minuto finale, ed uscivamo il minuto finale il più delle volte espulsi.

Non lo facevamo apposta, ma per innata cattiveria. La cattiveria è il nostro modulo di gioco ancestrale. Io, ad esempio, non sono mai riuscito a capire quale dovesse essere la posizione in mezzo al campo – non me l’aveva insegnata nessuno. Le scuole di calcio all’epoca non esistevano, cosi come non esisteva l’abitudine di iscrivere i figli ai corsi di nuoto, o di sci, o di teatro, o di danza. Mi rifugiavo sulla fascia sinistra (sono mancino di piede) e siccome anche le regole non me le aveva insegnate nessuno, ma le avevo dedotte guardando un po’ di televisione, quando mi venivano sotto, se scappavano, io li tiravo giù.

E’ che appartengo a una razza pateticamente virile, ignorante e maschilista. Una razza costretta a trovare grandezza d’animo nella sconfitta.

Li acciuffavano per la coda o per il coppino. In gruppi di quattro o cinque organizzavano delle vere e proprie battute di caccia. A volte qualche moccioso si impossessava di un fucile ad aria compressa, e tiravano così, a turno, con quello.

C’erano poi quelli che si abbandonavano a un vero e proprio sadismo. Di queste pratiche eccessive ometterò i particolari.

Sto parlando nuovamente dei gatti randagi.

Non è che non se ne dessero ragioni logiche. Il più delle volte li si accusava di essere sporchi, i randagi, di portare malattie. Era una cosa risaputa. E poi non appartenevano a nessuno. E si riproducevano con velocità stupefacente. Inoltre il felino rientra a fatica nella scala dei valori d’utile. Non serve per la caccia. Non serve per il latte. Al massimo si può sperare che tenga lontani i topi, ma solo se il felino in questione è domestico. Per i topi di campagna ci sono le vipere.

Il gatto randagio è un mistero che ti fissa e ti sfiora. Frequenta l’uomo come il borseggiatore frequenta la metropolitana. La sua stessa esistenza è destabilizzante. Ti lusinga con le sue fusa e ti rende partecipe di un segreto guardandoti negli occhi.

Ho sempre pensato che il selvatico negli occhi di un gatto sia la testimonianza più prossima di ciò che nel mondo naturale ci osservava famelico.

E’ un predatore dalle intenzioni limitate.

In effetti, ora che ci penso, la somiglianza tra il felino randagio e il marmocchio tipico del paese di Esse (lo stesso che gli dà la caccia ferocemente) è notevole.

Anche al marmocchio del paese di Esse per secoli lo si è accusato di essere sporco, di appartenere a una razza schifosamente fertile, di portare malattie. E in alcuni casi di non appartenere a nessuno, se non al ventre anonimo di una madre stracca.

Il marmocchio del paese di Esse è stato per secoli analfabeta, con la testa masticata dai pidocchi, con gli zoccoli ai piedi, con fiato delle bestie che saliva dal piano di sotto attraverso le assi distanziate del pavimento a scaldargli il sonno, con il piccolo furto come necessità. Mai in abbondanza, con l’intenzione rivolta al cibo, con il lavoro svelto, con le mani sordomute.

C’è stato un tempo in cui le madri sgravavano nei boschi mentre erano al lavoro. In cui i parti superavano di gran lunga il numero dei nati.

Ci sono stati figli, in tutto questo.

Sto parlando dei figli selvatici.

E anche dei gatti accoppati.

E del fatto che nei figli selvatici, per generazioni, ha retto il diritto alla crudeltà.

Insomma, me ne sto seduto nella sala del barbiere, in attesa che venga il mio turno. Osservo le sue spalle che si muovono sopra a un tizio con addosso una tuta rossa e gialla da trattorista. Il tanfo di olio motore e letame si mischia a quello del dopo barba e di chissà quale altra porcheria. Il trattorista lo conosco. È venuto a tagliarmi la legna con il bindello la primavera scorsa e, considerate le circostanze, non ha voluto neanche essere pagato. Mi sa che si ricorda. Guardo la sua testa dai capelli brizzolati e sento il sibilo della forbice. Riflesso nello specchio riesco a vedergli anche un po' di faccia. Evita di guardarmi, anche se sono sicuro che mi ha visto, entrando. Suo figlio era in classe con me alle medie. I professori gli tenevano il banco appiccicato alla cattedra, perché aveva la tendenza ad addormentarsi. Si svegliava alle quattro perché doveva andare nella stalla a star dietro alle vacche. Puzzava di letame tutto il giorno. Io ero uno dei pochi messo peggio di lui, in fatto di timidezza.

Il barbiere si chiama Poldo. Dovrebbe essere un mio mezzo parente, ma non ne sono sicuro. Da queste parti siamo un po’ tutti mezzi parenti. È un uomo gentile, lo si capisce dalle mani. Quando taglia sfiorano. Quando tocca il capo per spostarti a favore di forbice lo fa preciso, come misurasse a piombo. Non sa acconciare i capelli. Li taglia.

 

Poco o tanto, devi solo scegliere quello.

"QUELLO CHE SO DI NOI" Fabio Gaccioli