Home Cronaca I racconti dell’Elda 31/ Viaggio di nozze: 3^ e ultima parte

I racconti dell’Elda 31/ Viaggio di nozze: 3^ e ultima parte

66
5

Quel giorno Giuliano mi liberò dalla prigionia, mi fece indossare le scarpette fiorentine (ecco, perchè me le aveva comprate, lui sapeva che là i tacchi a spillo non andavano bene) e mi fece conoscere il paese. Fino allora dalle finestre avevo visto solo la facciata della vecchia chiesa, i palazzi antichi che cingevano la piazzetta e una fontana di ferro come ce n’erano anche a Castelnovo.

Mi prese per mano e mi portò sulla sommità di questo meraviglioso paese per mostrarmi il Castello, poi la Fonte, che poi si trattava di lavatoi di sasso lucido, che si raggiungevano scendendo qualche gradino, erano riparati da una lunga tettoia e lì sgorgava un grosso getto d’acqua continuo e da lì si poteva osservare il bellissimo panorama. Ai nostri piedi si stendeva la grande pianura di Boiano, contornata dalla catena del Matese, poi tanti paesini attaccati alle pendici dei monti. Mi raccontò che dalla parte opposta c’era Pesche un paese che il Duce aveva nominato dicendo che assomigliava alla sua libreria. Difatti tutte le case sorgevano ai piedi di un castello tutte attaccate alla montagna sembravano libri infilati in uno scaffale.

Rientrai all’improvviso per prendere qualcosa da mettermi addosso, l’aria si era rinfrescata. Trovai mia suocera che con Luisa frugava dentro la mia valigia per cercare chissà cosa e l’aveva trovato, aveva messo le mani sulla mia camicia di nozze che era ben impacchettata sul fondo della valigia, ed ecco la teneva in mano tutta felice e diceva che avrebbe mandato Luisa a lavarla alla fonte, significava mostrare alle comari della fonte questa bandiera. Allora accecata dalla rabbia e dalla vergogna gliela strappai di mano, la ributtai nella valigia chiudendola il lucchetto con la chiave,     sforzandomi di tenere la bocca chiusa per non dire cose da pentirmene dopo, mentre Luisa mi sorrideva beffardamente. Credete quella chiave, l’avrei ingoiata volentieri, ma Giuliano mi aspettava per farmi conoscere i suoi amici, perciò mentre uscivo me la misi in tasca.

Non feci parola di questo con mio marito, da allora a lui ho sempre cercato di appianare qualsiasi cosa, non volevo farlo star male per delle stupidate.

Ecco gli amici, Edoardo un bravo sarto con la sua bella famigliola, la moglie Rita, che mi aveva accompagnato in chiesa la mattina, sempre sorridente, carina, spigliata, intelligente che poi è diventata mia amica e lo è ancora dopo sessant’anni, allora avevano tre bellissimi bambini, poi ne è arrivato un quarto e io li ricordo sempre come i miei nipoti Molisani.

Poi il professor Orazio politologo e giornalista, Annamaria col marito ing. Arminio e la sorella Mirella, Questi abitavano a Roma, ma venivano in vacanza nella terra che aveva dato loro le origini. Poi innanzitutto Carmelino, maestro e sindacalista, lui in casa della levatrice aveva la tazza personale per prendere il tè, me lo avevano fatto notare una volta che l’avevo presa per sbaglio. C’era anche Raffaele “Papele” avvocato Milanese e gli altri, Palmo, Felice, Attilio, Vittorio, Sebastiano, Alfredo, mastro Peppe e moltissimi ancora, e non posso scordarmi Comincio e la moglie Marietta con la sua folta treccia bionda arrotolata attorno al capo, dai lineamenti fini, alta e snella, avevano tre bambini, dopo anche a loro ne arrivarono altri due. Poi il fratello di Comincio, Edoardo lui era un maestro e aveva una “Topolino” e ci portava in giro io seduta accanto a lui e Giuliano raggomitolato dietro.

Infine grande presentazione a donna Rosa, lui mi portò in quella grande casa aristocratica per farmela conoscere, lei non usciva mai, anziana grossa seduta su una poltrona davanti a un enorme camino sempre acceso anche d’estate, c’era sempre un tronco d’albero intero che fumicchiava. Quando eravamo arrivati al paese lei gentilissima aveva mandato subito Sabetta con un cestino di pastarelle per darci il benvenuto e ora ero là davanti a questa signora affabile che quando si rivolgeva a mio marito lo chiamava “guagliù” ed io ero la “guagliuncella”. Lei era la nonna di Fulvio e Guido, quest’ultimo grande compagno di marachelle di Giuliano.

Fulvio poi era cognato di un certo Sergio Leone diventato famoso come miglior regista      di Western, io di lui ricordo solo che girava per il paese coi nipoti e una carabina in mano per sparare agli uccellini, si vede che i Western gli stavano maturando nella testa. A proposito ricordo uno scambio di parole secche fra lui e Attilio che temeva per la sorte della cardellina che quest’ultimo aveva addomesticato, lei a suo piacimento usciva e tornava nella gabbia lasciata aperta attaccata a un albero.

Altri giorni invece, prendevamo la “Lambretta” della levatrice per fare escursioni veloci al Santuario dell’Addolorata, allora ancora ci stavano lavorando facendo delle rifiniture e mia suocera mi ricordava che sulla grande cupola ricoperta in rame, c’era   un suo paiolo, difatti tutto quel rame era stato raccolto in tutte le case molisane.  Quella della nascita di questo Santuario è una storia molto bella, chissà che non ricapiti l’occasione per raccontarvela.

Oppure arrivavamo a Campobasso, Isernia, Campitello Matese o sul Macerone dove Giuliano mi raccontava le sue avventure come ciclista, poi mi portava sull’Olmo, andavo a vedere tutti questi amici che giocavano a bocce sulla piazza così come usava fare allora senza sponde e la sera tutti sul muraglione a intonare “Oh campagnola bella” oppure struggenti canti Napoletani ed è stato proprio allora che ho cominciato ad amare la canzone Napoletana e questa terra e tutta la sua brava gente.

Una notte picchiarono col battacchio alla porta, chiamavano “Signò”, stava nascendo   un bambino nella frazione di Casale, si sentì gorgogliare la caffettiera sul fornello   elettrico che teneva sul comodino sempre pronta, poi qualche bisbiglio e il portone si richiudeva.

Il giorno dopo mi portarono a vedere il nascituro che già poppava nel lettone della mamma, fu uno spettacolo indimenticabile e lì vidi la professionalità di mia suocera era ancora là dalla notte, per accudire questa partoriente. Quest’episodio me ne riporta alla mente un altro, eravamo al paese col nostro primo figlio di soli quattro mesi, un giorno l’avevamo lasciato alle nonne, fra una poppata e l’altra avevamo fatto una scappata a Campitello Matese con Fulvio e la signora Mimma. Al ritorno lo abbiamo trovato che prendeva beatamente il latte da Ernestina, una signora del paese che allattava la sua bimba coetanea del nostro, la suocera si era accorta che il mio latte cominciava a scarseggiare, perciò aveva trovato la balia che mi sostituiva una volta al giorno. Così Gianfranco si ritrovò una sorella di latte, come definiscono laggiù i bambini che si nutrono allo stesso seno, questa sorella si chiama Maria Antonietta un’insegnante ormai prossima alla pensione come mio figlio.

Da allora ho cercato di capire questa suocera il più possibile, aveva avuto il fallimento del suo matrimonio, aveva perso un figlio dopo essere rientrato dalla guerra con una malaria non riconosciuta, perciò curato malamente e nel frattempo non sapeva se Giuliano, prigioniero di guerra era ancora vivo. Come vedete aveva sofferto tanto, ma aveva reagito alla sorte combattendo, aiutata dal suo forte carattere

Il paese poi col passare degli anni si rimodernò, i gradoni della strada principale che portava al castello, furono eliminati e il selciato di sanpietrini, lasciava salire le macchine di piccola cilindrata e i treruote, naturalmente facendo un po’ di gimcana, una grossa comodità per gli abitanti, specialmente per i vecchi e gli ammalati, anche se aveva perso le caratteristiche del passato. Poi una struttura nuova per il municipio e le scuole elementari che prima erano nel castello, cominciarono a spuntare nuove costruzioni e vennero ripristinate quelle vecchie, anche Giuliano comprò una vecchia casa e la fece rimettere a nuovo, così la levatrice lasciò quella centrale, che era grande ma malsana per la mancanza di sole. Poi vi dirò che anche le donne molisane, cominciarono ad accorciare le gonne e a indossare i pantaloni.

Questo paese era diventato il punto principale delle nostre vacanze, lunghe vacanze, i nostri figli sono cresciuti coi figli dei nostri amici, hanno imparato il loro dialetto il loro modo di giocare, lì potevano stare fuori tutto il giorno, perché era uno di quei posti dove i bambini venivano guardati da tutti sia che si arrampicassero su un pino o scalassero un muro, se era necessario venivano richiamati, fra loro sono nate delle belle amicizie che ancora durano nel tempo.

Questa nuova generazione poi si è evoluta molto in fretta, tutti diplomati e laureati, con molti sacrifici da parte dei genitori e anche loro, perché i licei non si trovavano sotto casa, ma a chilometri di pullman.

I venti giorni del mio viaggio di nozze, erano trascorsi in fretta ed ecco già gli addii e la suocera, che fortunatamente doveva lavorare ancora per qualche anno, che piangeva vicino alla macchina di Luigino, lui ci portava alla stazione e lungo viaggio   di ritorno.

Trovammo a Reggio il buon Natale Colombari che ci aspettava col suo taxi e una volta arrivati a Felina, rividi la mia Pietra e mi si allargò il cuore, era questo il posto più bello del mondo… e lì finiva il mio viaggio di nozze, ma cominciava la mia lunga vita matrimoniale, 57 anni e credete non sono state solo rose e fiori, anzi come in tutte le famiglie, malattie, preoccupazioni, discussioni, battibecchi e lui che usciva di casa senza guardarmi e io che giuravo a me stessa che gli avrei tenuto il muso. Poi lui tornava, picchiettava sul vetro della finestra della cucina e guardava dentro col suo famoso sorriso e io dimenticavo tutto. Era questo quel che si chiama amore?

Infine vi dirò che dopo questo primo impatto, mia suocera non era poi così male, mi ha insegnato molte cose specialmente quando avevo i bimbi piccoli, da lei ho imparato a cucinare alla Molisana, molto più leggera della nostra cucina, era colta faceva battute umoristiche simpatiche, era generosa, l’unico difetto che le era rimasto, era che aveva messo me al posto di Luisa, ma questo non mi pesava un gran che, anche perché mi chiamava “mani d’oro”. L’ho curata per dieci anni in carrozzina, era rimasta paralizzata da un ictus, sarò sincera non l’ho fatto per amore, ma c’è un’altra parola nella nostra vita che equivale a questa e si chiama “dovere”.

Elda Zannini

Scusate se mi sono dilungata troppo non so se ci sono riuscita, volevo solo spiegare l’incontro e l’abbraccio di due culture diverse. Ringrazio i miei lettori, auguro a tutti Buon Natale e un nuovo anno di serenità e di pace.

5 COMMENTS

  1. Signora Elda , semplicemente GRAZIE!
    Il Suo racconto e’ una nitida cartolina illustrata dei luoghi e delle persone. Come non commuoversi nel leggere del Suo affetto per noi e per il nostro Paesello ? Affetto ,e Lei lo sa bene, che ricambiamo di cuore.Buon Anno nuovo.?

    Gianna

    • Firma - Gianna