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Manzoni e gli “Inni sacri” – il Natale

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Gli Inni Sacri del Manzoni e l'inevitabile Cinque Maggio li avevo studiati al ginnasio, circa settanta anni fa, e in un contesto assai diverso da quello attuale. Scusate, ma se affermassi che mi erano piaciuti mentirei. Non tanto per il contenuto: quello c'era, ed era anche impegnativo e consono all'ambiente. Era la forma, la metrica a stufare. Pur nell'enfasi del racconto e nell'immedesimazione coi personaggi, mandare a memoria quei componimenti era arduo. 

Presepe di A. Pigozzi

Nell'attuale società frettolosa i versi di Manzoni, (come quelli di molti altri poeti di quell'epoca), non incoraggiano certo alla lettura: sono pesanti, cadenzati come un passo marziale, rime obbligate e scontate, termini ponderati, cesellati, ma ormai fuori uso da tempo. Già! Ma era il mondo di allora, e di tanti, non del solo Manzoni! Soprattutto di chi usava il verso per stupire. “Odio il verso che suona e che non crea” diceva già il Foscolo. E sicuramente la pensava così anche il Manzoni quando affermava: “Sono scontentissimo di questi versi, soprattutto per la loro totale mancanza di interesse; non è certo così che bisogna farne; ne farò forse di peggiori, ma non ne farò più come questi”[Da una lettera a Charles Claude Fauriel con riferimento ad una propria opera giovanile]. Ma a quei tempi una poesia, per meritare questo appellativo, doveva essere lunga, capace di esplicare tanti concetti con giri di parole, di dissertare a lungo sull'argomento. Doveva essere farcita di citazioni, di esempi, di paragoni, e dimostrare una cultura umanistica di tutto rispetto. In pratica era una tesi, o un piccolo trattato, capace di illustrare ciò che l’autore intendeva trasmettere. Una tesi, però scritta in versi.

A chi ha letto la biografia del Manzoni risulterà difficile accostare i concetti degli Inni Sacri al modo di vivere di un Alessandro prima maniera. Sappiamo che ebbe una giovinezza tribolata, non proprio da giovin signore: un’ombra sulla paternità, i compagni di collegio che lo apostrofavano “Manz-A-less”, con la cattiveria tipica dei ragazzi, il dover frequentare una scuola che non gli dava ciò a cui aspirava: “...il viso torsi / da la fetente mangiatoia”. Così definiva i collegi nei quali fu ospite dal 1791 al 1799. E non ne serberà memoria gradita. Puntava più in alto il ragazzo. Era consapevole delle proprie capacità, aveva riferimenti importanti, come il Parini, il Monti, il Foscolo ed ammirava l'Alfieri. E puntava ad inserirsi nella vita culturale e sociale dell’epoca, in una società proiettata alla ricerca di un leader politico da osannare quale redentore dell'umanità, capace di blandire le aspettative del popolo. Il leader c'era, ma poi si manifesterà una meteora. E l’autore lo licenzierà con un drastico Ei fu!

C’è, nel giovane, la ricerca di valori concreti, che però non riscontra nei personaggi in vista. C’è poi, per un Alessandro che si affaccia alla virilità, la scoperta dell’amore e della prospettiva di condividere l’esistenza con un’altra persona. E c’è anche il dramma, fortuito, casuale finché volete e fortunatamente breve. Manzoni si trova a Parigi. Durante una manifestazione popolare la persona che ama scompare come inghiottita da un mostro chiamato folla. Gente che urla, gente che travolge, come un fiume in piena. Impossibilitato a rintracciare la sua donna, disperato, Alessandro esce dalla confusione e, spinto non si sa da quale forza, entra in una chiesa. Proprio lì dove Enrichetta lo aveva preceduto.

Per Alessandro sarà una svolta, un cambiamento totale, un impegno che durerà tutta la vita. Una Conversione che molti non hanno capito (o non hanno gradito). Fino ad allora Manzoni si era dedicato a componimenti di grande respiro socio-politico. Oltre tutto siamo in un periodo storico contraddittorio. Chi segue il romanticismo elabora concetti religiosi troppo spesso sdolcinati, poco concreti e poco attuali; chi segue il classicismo osteggia per principio la religione ed ostenta atteggiamenti paganeggianti. Salvo poi a costruirsi una religione a proprio uso e consumo, più o meno come succede ai nostri giorni. Manzoni è alla ricerca di qualcosa di più, ma non ha ancora solide basi cattoliche. A Parigi ha contatti con un sacerdote giansenista, Eustachio Degola, e la stessa Enrichetta che lui ama è di confessione giansenista. La conversione lo avvia ad un approfondimento del Cattolicesimo, percorso basato sulle tre direttrici fondamentali: Bibbia, Liturgia, Tradizione popolare. Ed è qui che scopre la consistenza di quei valori inseguiti in gioventù, tanto decantati dalle varie politiche, ma sempre sfuggenti: libertà, uguaglianza, fraternità.

Dopo un periodo di assestamento interiore progetta un'opera dal respiro universale, gli Inni Sacri, capace di diventare catechesi e apologia allo stesso tempo, inculcata in lui dalla lettura dell'innografia cristiana. Nell'intenzione dell'autore i componimenti dovevano essere dodici e coprire tutto l'anno liturgico cattolico. Riuscirà a realizzarne soltanto cinque: La Resurrezione e Il Nome di Maria tra il 1812 e il 1813, Il Natale nel 1813, La Passione nel 1814/15, e La Pentecoste nel 1822.

La Critica non fu subito benigna verso il Manzoni, e la prima pubblicazione degli Inni passo quasi inosservata. Ma poi i giudizi cambiarono nella seconda metà dell'800, dopo che il romanzo I promessi sposi lo aveva consacrato scrittore di grido: “La base ideale di quegli Inni è sostanzialmente democratica; è l'idea del secolo battezzata sotto il nome di idea cristiana, l'uguaglianza degli uomini tutti fratelli in Cristo, la riprovazione degli oppressori e la glorificazione degli oppressi, è la famosa triade libertà, uguaglianza, fratellanza evangelizzata, è il cristianesimo ricondotto alla sua idealità e armonizzato con lo spirito moderno”, che “non cancellava l'antico, anzi vi si inquadrava” [Francesco De Sanctis].

Il Natale - Il componimento inizia con una immagine significativa: l'uomo viene paragonato ad un masso che si stacca dalla cima di un monte e precipita lungo la costa fino a bloccarsi sul fondo di un baratro (peccato originale) e non ha né la possibilità né la speranza di ritornare sulla cima da cui è precipitato “se una virtude (forza) amica / in alto nol trarrà”. Quel Bimbo indifeso che ammiriamo nel presepio è colui che “all'uom la mano porge”, che lo riporterà al suo stato iniziale mediante il proprio sacrificio. L'inno è il sunto della teologia della Redenzione. C'è la documentazione biblica dell'evento, a garantire che si tratta di un fatto profetizzato da tempo: è nato a Betlemme, il più piccolo dei borghi della terra di Giuda, come predisse il profeta Malachia. C'è anche la descrizione della Natività (il coro degli angeli, l'annuncio ai pastori, ai semplici, ai Re magi), come vuole la tradizione. E c'è un leggero cedimento umano all'emozione: “Dormi, o Fanciul, non piangere; / dormi, o Fanciul celeste“. E qui immagino il poeta rapito, coadiuvato da un sottofondo di violini, ricordare la nascita dei propri figli. A conclusione c'è l'augurio che un giorno i popoli “in quell'umil riposo (culla), / nella polve ascoso, / conosceranno il Re”. È la realizzazione dell'avvento del regno di Dio sulla terra. Non insisto più a lungo, Anche perché oggi è facile trovare il testo e i commenti per chi desiderasse approfondire.

Presepe di A. Pigozzi