Home Cultura I racconti dell’Elda 26/ “Un’avventura sul biroccio”

I racconti dell’Elda 26/ “Un’avventura sul biroccio”

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La famiglia di Venanzio

I vicini di casa erano sparsi in un raggio circolare di circa 500 metri: I Pavoni, Casa della Zita, Casa di Secondo, Ca’ di Bugino e Istabbi, poi più a nord Cà di Patino e Cà della Beccaccia ora denominato (Belvedere). Come vedete sono cresciuta in un posto un po’ isolato, si chiamava Malpasso, perché in quel posto lì la strada era attraversata dal rio Ferlara e per non bagnarsi bisognava saltare dalla parte opposta, ora ha cambiato nome con viale Bismantova, ma è sempre lo stesso, manca solo il ruscello che è stato incanalato, naturalmente allora, distava circa mezzo chilometro anche da Castelnovo, ora le distanze si sono accorciate.

Tutti questi gruppetti di abitazioni allora venivano denominate (case sparse sotto la Pietra) ognuna aveva un nome diverso preso da chi vi abitava come Zita e Secondo, poi invece c’erano i Pavoni e qui si capisce perché da sempre veniva chiamato così, dal momento che c’era una favolosa fontana forse in passato ci abitavano questi bellissimi uccelli, poi Cà di Patino, in dialetto il “patino” era il padrino di battesimo, Cà della beccaccia e qui si parla di altri uccelli, poi Istabbi che era il posto dove venivano allevati i maiali “stambi” era la loro stalla, ma Bugino non sono riuscita a collegarlo a niente. Cosa avrà voluto dire questo nome? Io da bambina immaginavo un bue piccolo, ma poi al di là del Secchia “bùgia” era la tasca, proprio non so dirvi perché si chiamasse così.

Come vedete i vicini erano un po’ lontani e per la maggior parte erano adulti ma tutta brava gente, chi non ricorda la bontà della Zita sempre pronta ad accogliere tutti in casa sua, poi il sorriso e la riservatezza della Rosa di Secondo, il da fare della Celsa con la sua nidiata di figlioli, e la Celide che ricordo sempre con una bimba in braccio e una attaccata alla gonna, poi l’Irgide e la sorella Giovanna che scorgevo nei campi di Istabbi ad aiutare l’uomo di casa e anche lì due bimbe all’ombra di una quercia.

Ora però voglio raccontarvi di Ca’ di Bugino che era la più vicina alla mia e vi abitava una famiglia meravigliosa, padre, madre e tre figlie femmine, la più piccola delle tre si chiamava Gina, poi c’era Peppo una personaggio particolare piuttosto anziano non molto alto e un po’ grassottello con occhi chiari vivaci e voglio parlare precisamente di lui:

“Cichina vriv muntar inséma al bröss cun la Gina?” Piccolina volete montare sul biroccio con la Gina? Andiamo fino all’ammasso.

Venanzio giovane col foulard dei mercanti di bovini

Era lui che mi invitava a salire sui sacchi di grano che doveva depositare al Consorzio, naturalmente io accettavo, un giro sul carro con la mia amica Gina mi attirava molto, anche se lei aveva quattro anni più di me.

Peppo non era un parente della famiglia di Venanzio, ma abitava con loro da parecchio tempo e non so dirvi il perché. Il suo nome era Giuseppe Bagnoli, una persona colta sapeva tante cose, ma soprattutto parlava volentieri di politica, leggeva tutti i giornali indossando i suoi occhialini tondi e dorati, sapeva tutte le notizie che riguardavano la materia interessata. Era un saragatiano convinto e ci teneva a farlo sapere e molte volte, specialmente se al mercato aveva bevuto quel bicchiere in più che gli faceva sciogliere la lingua, si fermava a parlare di questo con mia madre in modo molto educato e rispettoso, appoggiandosi all’inseparabile zannetta, la mamma invece era monarchica, perciò la cosa andava un po’ per le lunghe, poi si salutavano e ognuno teneva le proprie convinzioni.

Come ho già detto abitava a Ca’ di Bugino, quella famiglia l’aveva accolto da molto tempo, ma lui era indipendente aveva camera e cucina al terzo piano vicino alla colombaia, io qualche volta c’ero stata con la Gina per portargli la biancheria pulita e stirata. Lassù avevo notato un tavolino pieno di giornali e libri, questi ultimi avevano la copertina nera, una bellissima pipa di radica appoggiata vicino a una splendida tabacchiera luccicante e una stufetta bassa di ghisa che scaldava l’ambiente.

Peppo, come avrete notato mi aveva interpellato dandomi del voi, questo voleva dire che aveva un gran rispetto verso i bambini.

Venanzio era il capo famiglia ed era conosciuto come mercante di bestiame andava molto spesso in toscana per compra e vendita, anche lui mi dava del voi, anche se qualche volta gli piaceva farmi tribolare, mi agguantava e mi teneva sotto al braccio come un sacco di farina dicendomi:

“Adesso vi porto a casa mia, ho bisogno di una servetta che pesti l’acqua alle galline, altrimenti non la bevono”.

Io mi divincolavo e correvo da mio padre chiedendogli come si faceva a pestare l’acqua alle galline di Venanzio e lui rideva fino alle lacrime e io restavo ignorante in materia.

Torniamo a Peppo che mi aveva fatto salire sul biroccio tirato da due mucche giovani e la Gina “cun al stömble in man” che poi era una lunga pertica sottile, pelata e lisciata, la teneva in mano per parare le mucche al bisogno, stavamo comodamente sedute sui sacchi di grano e cominciavamo a parlare dei suoi gattini che erano nati da poco nel fienile e del suo amatissimo cane.

Gina coi canoli

Poi mi raccontava che aveva dato l’esame di quinta ed era stata promossa. Prima dell’esame sua sorella Armida che era molto più grande di lei, l’aveva portata dalla parrucchiera e le aveva fatto fare i “canelotti” che poi erano boccoli, ma appena arrivate a casa la mamma (donna d’altri tempi, molto energica, con nessun grillo per la testa), appena l’aveva vista conciata così si era inalberata subito e aveva ordinato alla figlia grande, di rilavarle subito la testa:

“second te sèmi genta da canelòt nuatre?” secondo te siamo gente da boccoli noi?

Armida aveva ubbidito e mentre le lavava la testa diceva:

“Tanto la fotografia te l’ho fatta fare”

Così chiacchieravamo tranquille, mentre questo vecchio signore, io lo definisco così, perché Peppo non era certamente un contadino, ma al bisogno dava una mano alla famiglia che lo ospitava, perciò quel giorno guidava lui le mucche tirandole per il timone.

Arrivati al Consorzio e scaricati i sacchi tornavamo verso casa, sempre per il centro, allora non c’erano le traverse che ci sono adesso, la strada era una sola, via Roma, che attraversava il paese da cima a fondo. Arrivati però presso la farmacia di Manfredi, le mucche si erano spaventate, non so per cosa, forse dei colombi che volavano raso terra e hanno cominciato a imbizzarrire. Peppo non riusciva a tenerle, praticamente veniva trascinato da loro verso il muro di corona sopra all’Oratorio e noi due bambine sedute sopra al biroccio eravamo terrorizzate, dietro quel muro non c’erano i marciapiedi e i palazzi che ci sono adesso, ma c’era il vuoto.

Quando improvvisamente sentivo due mani robuste che mi sollevavano di peso e mi mettevano al sicuro per terra, guardavo riconoscente il viso di questo giovanotto e quel viso non l’ho più scordato era Lamberto Pedrazzoli, che non aveva aspettato un attimo e con le sue braccia lunghe era riuscito a tirare giù noi bambine, poi naturalmente altra gente arrivava e riuscivano a trattenere e calmare le mucche e qualcuno porgeva il cappello, gli occhialini e la zannetta a Peppo che li aveva persi nella foga.

Intanto in mezzo a tutto quel trambusto, passava di lì una di quelle vecchiette sapienti che sanno sempre più degli altri e si sentono in dovere di bacchettare il prossimo (forse sono diventata così anch’io) e rivolgendosi a me e alla Gina diceva:

“Vi sta bene, così imparate a salire sui birocci”.

Ma santa vecchietta cosa ne sapeva lei dei figli dei contadini, che cominciavano ad andare nella stalla e nei campi appena cominciavano a fare i primi passi?

Comunque siamo tornate a casa a piedi seguendo il carro, non per la sgridata della vecchietta, ma per la tranquillità di Peppo che appariva molto provato da questa brutta avventura.

Una volta arrivati, mi salutava dicendo:

“Aiv aȇu paȇura cichina?” Avete avuto paura piccolina?

Io di paura ne avevo avuta tanta, ma dignitosa come sempre e anche un po’ spacconcella, rispondevo:

“Ma nò, grasie Pepo, ciamem anch n’atra völta”. Ma no Peppo grazie chiamatemi pure anche un’altra volta.

Anche se in cuor mio sapevo che “n’atra völta” non mi sarei fatta trovare.

 Elda Zannini

 

 

 

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