Home Cultura “Quello che so di noi”. Primo movimento, la morte

“Quello che so di noi”. Primo movimento, la morte

20
0

"Quello che so di noi". Raccolta di racconti di Fabio Gaccioli, dove narra il suo Appennino particolare.

---

Quello che state per leggere non è un racconto, è un monologo. O per meglio dire la versione ridotta di un monologo. Più che leggerlo andrebbe sentito, ma alla fine va bene anche così. L’ho scritto su commissione di un amico in poco meno di una settimana. Visto il poco preavviso ho lavorato per collage: nel monologo troverete brandelli di un altro racconto, che si intitola “Il senso della rondine” messo a conclusione del bel libro della fotografa genovese Federica De Angeli, “I tu fatt Cuma t’è”, una serie di ritratti degli abitanti di Cerrè Sologno, mio paese d’origine.

Nella versione originale del monologo (scandita da tre movimenti: la morte, l’amore, l’inaugurazione) la narrazione è alternata alla lettura di una serie abbastanza lunga di poesie scritte da autori locali. Qui, per questioni di spazio, ho dovuto inserire soltanto un componimento.

La poesia in questione è tratta dal volume “Alte voci – una “spoon river” nell’Appennino emiliano” di Ralfo Monti, poeta di Civago.

Ho letto il monologo ad alta voce davanti a un pubblico di una cinquantina di ragazzi, quasi tutti stranieri, il 31 agosto scorso, all’interno di un progetto Erasmus di riqualificazione territoriale portato avanti dall’Ostello dei balocchi di Casalino, una delle realtà più vivaci e innovative, a mio giudizio, presenti sul territorio.

Spero che ci abbiano capito qualcosa.

Spero che ci capiate qualcosa anche voi.

 

Primo movimento, la morte

Siedo ai tavolini di un bar, sul marciapiede di una piccola città, distesa nel taglio di una valle tra le Dolomiti. Guardo in su, verso la costa di un monte senza nome che strapiomba sui tetti delle case. Penso che per qualcuno, intorno a me, anche quel sasso - con l’altipiano verdeggiante che ci sta sopra e i masi diffusi ai bordi della strada - ha il nome segreto con cui si chiama, a voce muta, la parola casa.

I tedeschi hanno trovato una parola più adatta per descrivere il luogo dell’anima dove trovano fondamenta certe mura. Heimat è un vocabolo che in italiano non ha corrispondenza. Significa casa, piccola patria, luogo natio; indica il territorio in cui ci si sente a casa propria perché ci si è nati, ci si è trascorsa l’infanzia; è lì che si parla la lingua degli affetti.

Da queste parti, nello spazio esiguo tra i confini, con la parola Heimat c’è poco da scherzare.

Il cameriere che mi ha appena servito il caffè, però, ha il volto anonimo della giovinezza ai tempi del terzo millennio. Capelli corti con un ciuffo piuttosto complesso e innaturalmente liscio, una chiosa di tatuaggi sulle braccia, come da copione. Smanetta su un apparecchio elettronico per le ordinazioni e mi sorride, educato e a suo agio nella maglietta nera con il logo del bar sul petto. È il tipo che ti aspetti di vedere entrando in ogni negozio del mondo: funzionale e uniforme come la dentiera di un bambolotto. Mi guardo intorno, circondato e sopraffatto dai passetti borghesi dei turisti austriaci. Fanno sosta qui, di ritorno o in partenza dal lago poco lontano.

Il centro di questa piccola città è lustro quanto un pomello d’acciaio. Persino il caffè, servito su un piattino rettangolare con due invasi esatti, uno per la tazzina e uno per il cucchiaino, mi comunica un senso di smarrimento. Non so perché, mi viene in mente il bancone appiccicaticcio del bar di Sologno e il fornaio, strozzato dalle sigarette, aggrappato ai suoi bicchieri di campari. Non so perché, mi torna il tanfo soffocante delle nazionali di Bruno, i suoi occhi sempre arrossati, il guanto verde con cui copriva il moncherino della mano saltata per aria con lo scoppio della granata, il suo volto solcato come le colline.

Mi guardo intorno e cerco una faccia simile, un viso talmente impastato di terra da farmi sentire a casa, o per meglio dire, da farmi suonare intorno, con la sua inconfondibile voce muta, la parola casa/piccola patria/heimat. Davvero poco importa se quella di qualcun altro; non la mia.

Invece, solo passi, anzi, passettini e strusci di turisti che vanno.

Mi squilla il telefono, prendo su.

È Stefano: “Bisogna che mi vieni a fare una lettura a fine agosto su in centrale, il tema è quello dell’abbandono dei territori…”

Segue rapida descrizione. Che conosco a memoria, non ci sarebbe nemmeno bisogno di pronunciarla; davvero non c’è bisogno di dire niente.

Ho la testa imballata di inutili parole d’ordine: aree interne; sviluppo sostenibile; slow food; biosfere magiche; patrimoni UNESCO. Tutto l’ambaradan, al completo.

Bisogna che ci penso un po' su. Si deve fare ordine. C’è molta dottrina che viaggia sui territori. E io di dottrina non ne capisco niente.

Cosa capisco io?

Capisco che il mondo è pieno di gente che va e gente che resta. Io sono di quelli che vanno. E sono un traditore. Sì, perché il mondo è pieno di gente che resta per fare la rivoluzione. Abitare un luogo, oggi, restarci aggrappati, inventarsi un modo, prendersi cura; significa andare contro. È un “nonostante tutto” che si riempie di molteplici significati, stratificati come lastre di arenaria. Abitare un luogo significa piantare i piedi in un mondo che frana in avanti, che consuma sé stesso in un movimento convulso continuo.

Piantare le zampe, fermarsi, come Muli sereni.

Certo, ce ne sarebbero di cose da scrivere al riguardo. Oppure da leggere: c’è un intero esercito di poeti gallonati, là fuori, ne sono sicuro, o di pensatori specializzati – o ancora di tecnici deputati.

Ma io sono un traditore, e non ho voglia di scrivere o usare grandi parole.

Mi affido quindi a una serie di rime non mie, scritte da poeti pastori/poeti muratori/poeti semi analfabeti, che hanno trovato, a morsi, la parola. Perché i luoghi sono fatti prima di tutto di terra. Di semplice terra. E anche la parola dei luoghi deve sporcarsi di terra.

Semplice parola di purissima terra.

I poeti dalle mie parti imparano prima a usare il pennato che la penna. Spesso le ottavine venivano improvvisate nei bar, nelle piazze; non erano scritte. E quelle che lo sono portano viva la voce, non solo di chi scrive, ma di chi dice la parola.

Oggi le piazze tacciono. I bar chiudono. Il territorio appare quasi del tutto esangue: inselvatichito, nel bosco e nello spirito. Io lo so bene, perché ci sono nato, e ho sentito, e sento ancora, il sangue scorrere via, verso valle. Qualcuno ha detto che gli Appennini sono stati la linfa di un intero paese.

Ma allora perché tutto questo sangue non ci viene ridato indietro?

Se aprite internet, vi troverete invasi di immagini da un mondo che non esiste. È tutto un paesaggio che gira, rotola, si sgretola e si riforma.

C’è un posto qua nei paraggi che gli han fatto il marketing territoriale, per far pubblicità in rete. E l’Agenzia di Marketing ci ha messo sopra dei paesaggi della Toscana. Gran bordello, quando si è venuto a sapere. Ma non c’era mica da rimanerci male. È stata una cosa meravigliosa. Un atto di verità. Che in fondo cosa te ne frega di dar nome ai posti o alle cose? Il mondo non esiste. Esiste solo il desiderio.

Però è vero. C’è sì da farsi una risata, ma la nausea, quella, ti prende lo stesso. Un poco alla volta.

Io, se fossi un ufficio turistico, direi:

“Oh, uomo, vieni qui. Vieni a vedere cosa succede su queste montagne: qui si muore. Passa nei paesi, e ascolta. C’è qui un silenzio abissale che parla ostinato di te. Qui c’è il tempo, il suo corpo sudato. Tu credi davvero di essere il centro del mondo, ma non è così. Qui il centro del mondo è disseminato ovunque. Trovalo, se sei capace. E abitalo se ti riesce.

La storia, la politica, l’economia, non hanno virtù. Si sono abbattute sulla mia terra con la ferocia del soldato tedesco, con la spocchia del padrone, con la viltà del crumiro, con l’arroganza del superstite, con l’infamità del calcolo, con la vergogna dell’arricchito.

Hanno fatto di casa mia un cumulo di macerie camuffate, ben ammassate e a regime come una tomba.

Ma va bene così, non significa nulla. Ricorda sempre che dove calpesti un tempo era tutto mare. E della tua impronta, al mare che sta per alzarsi, non importa una sega.

Questo lo so io, lo sai tu, e lo sapevano bene, anzi, benissimo, i poeti di queste terre, che si sono conquistati la parola in faccia all’impossibile.

Te l’ho detto già una volta e te lo ridico ancora: vieni, qui si muore”.

Primo movimento

La morte

Ralfo Monti

Il medico condotto

Han chiamato il dottore d’urgenza

Ma diluvia, c’è freddo, c’è fango

E la moto non ha il parafango

E chissà l’ammalato dov’è.

Ma il dottore che ha molta coscienza

Dice: “Vengo. È lontano?” “Dottore,

io col mulo ci ho messo quattr’ore

e la strada maestra non c’è.”

          “Ma sul mulo ci ho messo la sella

           Può coprirsi le gambe col telo

           Io ci monto di dietro sul pelo

           E a qualche ora saremo lassù”.

           Detto fatto, la sera di quella

           Giornataccia davvero inclemente

           Il dottore arrivò finalmente

           Dove ormai non lo aspettano più.”

Che la morte beffarda è sull’uscio

Di una casa del borgo montano

E singhiozza e la falce che ha in mano

Gronda sangue di vile color,

ma il dottore cui l’arido guscio

del mestiere non rende incosciente,

al colore non guarda per niente

e qualcosa gli brontola in cuor.

           “Sì, capisco dottore, se invece

           Di dovere salire qua in cima

           Con il mulo, poteva far prima…

           Si, capisco, ma beva un caffè.

           Tanto, vede, quassù quella specie

           Di selvaggi che piangono il morto

           Hanno torto, hanno torto, hanno torto

           Lui sta meglio al paese dov’è.”

La morte non è certo una cosa nuova, per nessuno. Basta saperla, esserne consapevoli. Il problema non è tanto il morire, ma come si decide di farlo.

Di uomini morti in vita sono piene le strade del mondo. Nei salotti, con il muso penzolante su un piatto di minestrina, nei timbri di un cartellino elettronico, tra le braccia rigide di una storia tradita.

Di uomini morti che camminano sono pieni i nostri giorni. Sono quelli che aspettano, indaffarati, col cuore in gola, sempre di corsa, ma aspettano.

No, c’è un solo modo buono per morire. Ed è farlo con amore.

Anche questo lo sappiamo tutti, e lo sanno i poeti.

Lo sanno i poveri e i bastardi.

Poeti, poveri e bastardi. Non ci sono amanti migliori.

Adesso so perché prima ho pensato a Bruno e alle sue sigarette senza filtro. Era tornato dalla Russia a piedi. Provate voi a tornare dalla Russia a piedi, e poi mi dite. Le rondini sanno la direzione. La sapeva anche Bruno. Il destino non è stato clemente con lui. Scampò alla guerra di Mussolini tutto intero. Provate voi a scampare a Mussolini, e poi mi dite. Perse la mano al paese, in tempo di pace, cercando di liberarsi di una granata inesplosa vomitata fuori da un campo. Odiava le barchette di carta. Al bar Tiziano gliele metteva sotto al muso apposta. Lui le strappava usando la mano buona, tenendole bloccate sul tavolo con il moncherino. È morto che io lavoravo in ceramica. Lo avevano chiuso in una gabbia di lettini e pappine solubili, al ricovero a Villa. Era rimasto solo.

Una mattina di anni fa ero al bar a fare colazione. Lo vedo entrare dalla porta come se niente fosse. Era scappato dal ricovero. Si era fatto tutta la strada a piedi da Villa a Cerrè attraverso i campi. Aveva fatto fessi quelli della casa di riposo così come aveva fatto fesso Mussolini. Se lo sono comunque ripresi poche ore dopo. Un delatore, preoccupato, fece la spia. Io, se era per me, lo lasciavo fare. Perché sono convinto che Bruno era una rondine; cioè, aveva il senso della rondine, e sapeva che stava per morire. Sapeva quando era il momento di alzare il culo. E sapeva tornare a casa. È morto qualche settimana dopo la fuga, e ho sempre pensato che è stato crudele far morire una rondine in cattività. Ma ormai è andata. Quello che spero è di avere anche io la forza di Bruno e il senso della rondine. E lo auguro anche a voi, di saper ritrovare, in qualche modo, ovunque vi troviate, la strada verso casa.

(Fabio Gaccioli)