Cinque – Le cose
All’inizio sembrava una cosa da poco, come una specie di gioco. Mio padre metteva a posto le cantine e trovava un oggetto, una cosa, un attrezzo di mio nonno Lelio e lo metteva via, lo metteva da parte, in un angolo, come a proteggerlo dal passare del tempo, da quello che un giorno fa sparire le cose, perché quel giorno le cose e solo quelle, non servono più.
Le prime cose erano dei bidoni e dei secchi di metallo per il latte, un setaccio, la forma in legno di una scarpa, qualche rastrello senza troppi denti, un forcale a due punte, scope fatte con le fascine, un vecchio ombrello nero appeso al muro con anche due o tre corna di bue che servivano a contenere le pietre per affilare la lama della falce. Poi un giorno mio padre si mise a costruire un lungo capanno con del legno vecchio e di recupero, voleva farne un piccolo museo della civiltà contadina diceva, con dentro tutti gli oggetti, gli attrezzi e le cose di suo padre, mio nonno Lelio. Quel capanno venne finito in pochi giorni e poi mio padre ci mise quasi un anno a riempirlo di tutte le cose e alla fine nel capanno c’erano tanti di quegli oggetti che un giorno mio padre non era più riuscito a farci entrare niente e quel giorno aveva deciso di costruire un altro capanno, con dell’altro legno e di metterci dentro tutte le cose della vita di mio nonno Lelio, le altre almeno, quelle che non entravano più da nessuna parte, nessun capanno.
Così oggi ci sono due capanni con dentro tutte le cose.
Le finestre sono sempre chiuse e sui muri ci sono appese alcune pannocchie e le galline girano intorno e a volte cercano anche di entrare dentro, ma poi finisce che si fermano sulla soglia, si guardano intorno e vanno altrove.
Ci sono dei giorni che anche io mi metto a girare intorno ai capanni e dove non ci sono gli scuri alle finestre, metto la faccia sui vetri e guardo dentro le cose della vita di mio nonno e un giorno, appena sopra ai barili di metallo del latte, ho visto anche una custodia gialla di plastica, quella con dentro la pietra per affilare, che mio padre mi faceva tenere in mano le volte che lo guardavo tagliare l’erba con la falce, nel campo in salita con il vento e polvere e l’erba appena tagliata. E quando ho visto quella custodia ho avuto la strana sensazione di tenerla ancora in mano e di poter tornare davvero a quei giorni quando ero bambino e le sere di maggio andavo a fare il chierichetto alle processioni insieme a Stanco e Panino.
Poi sono tornato a pensare tutte quelle cose di mio nonno Lelio e di mio padre e a quella custodia gialla che per me è sempre stata mia e alla fine ho staccato gli occhi dal vetro e sono andato via e nelle mani sentivo il peso della pietra e in testa immaginavo il giorno che mio nonno Lelio mi aveva visto per la prima volta, il giorno che ero nato e poi anche il fatto che un mese dopo lui che sapeva di morire, era morto per davvero, lui che alla fine aveva visto me ma io non l’avevo, non l’ho conosciuto, non l’ho avuto, per davvero.
Beh, se le altre volte mi sono trattenuto (chissà poi perché?), questa volta non lo faccio. Bravo. Mi piacciono molto questi cortometraggi, perché trasudano di poesia. Sono ricorrenti passaggi remoti, ma talmente intensi da diventare presente. Un presente che deborda nel lettore, che obbliga anche a me ricordare di quel nonno con la “frina” (falce) e quel suo moto, ritmico e antico, quasi di danza. Grazie
Umberto