Don Giuseppe Jemmi, nato a Montecchio il 28 dicembre 1919, alunno dei seminari diocesani di Marola e Albinea.
Ragazzo vivace e sempre allegro, ma segnato da una profonda formazione interiore, all’atto di iniziare gli studi di teologia, sembrandogli di aver vinto le ritrosie della madre che moriva di crepacuore al solo pensiero che in Cina avrebbero potuto ucciderlo, entrò nel noviziato saveriano di San Pietro in Vincoli a Ravenna. Ma poco dopo, per consiglio dello stesso superiore dei Saveriani padre Dagnino, dovette rientrare in seminario per non aggravare il dolore della madre. In seminario si distingueva oper la sua allegria e per il suo spirito missionario.
Ricorda un suo compagno di classe farmacista in Argentina: «In seconda liceo, 18 anni, mi ero contagiato tanto tanto dalle conversazioni di Giuseppe Iemmi col suo ‘fuoco missionario’, tanto che volevo farmi missionario anch’io».
È proprio con questo fuoco missionario, vera “fornace ardente di carità”, che, ordinato sacerdote il 27 giugno 1943, don Giuseppe inizia la sua “carriera” sacerdotale come cappellano coadiutore di Felina, accanto a un “santo” sacerdote (parola del vescovo Brettoni) qual era il parroco don Anastasio Corsi.
Piena disponibilità per i giovani, filialmente servizievole verso gli anziani, sempre pronto a farsi in quattro per chi era nel bisogno (e in quei venti mesi di guerra furono innumerevoli), don Giuseppe non risparmiò né fatiche né mezzi. Ma soprattutto gli premeva che, pur in quel tristissimo contesto, dove l’odio, la vendetta e la violenza sembravano avere il sopravvento, non si spegnesse nei suoi parrocchiani e nei partigiani che egli seguiva e aiutava intensamente, la voce della coscienza umana e cristiana. E proprio per questo suo costante annunncio del Vangelo fu ucciso, a soli 25 anni e 4 mesi di età e soli 21 mesi e 22 giorni di un sacerdozio la cui stella – come aveva scritto nel “santino” a ricordo dell’ordinazione – si era tinta nei bagliori della guerra.
Il primo a denunciarne l’assassinio fu, su “La Nuova Penna”, a liberazione avvenuta, del 1945, il suo amico Giorgio Morelli, “Il Solitario”.
G.G.
Nota di don Raimondo Zanelli su don Giuseppe Iemmi
Iniziando la messa, il celebrante sale all’altare, lo bacia e lo venera. È il suo primo gesto. Perché l’altare è tomba dei martiri delle prime comunità cristiane e richiama il sacrificio della loro vita. Nella sua semplicità e nel suo silenzio, questo bacio è rivolto a Cristo, altare, sacerdote e vittima (Ebrei 4-914). Fino a poco tempo fa non si poteva celebrare se non sulla pietra sacra, contenente le reliquie dei martiri, consacrata dal vescovo.
Come vorrei celebrare sulle ossa del martire don Giuseppe Iemmi, martire non dei secoli antichi, dei tempi della barbarie, ma di questi nostri tempi, in questa terra che chiamiamo civile, moderna, addirittura cristiana. Don Giuseppe, giovanissimo prete, generoso, idealista in nome del Vangelo, alza la sua voce e grida nell’ora del terrore, in un momento in cui – Pasqua 1945 – l’odio accieca le coscienze e fa vedere un nemico nell’amico, un avversario nel fratello.
Egli era reduce dal noviziato missionario dei Saveriani di Parma e insegnava a noi giovani felinesi un canto: «O Vergin pietosa / laggiù del martirio la palma gloriosa / noi sospiriam». Il martirio, che forse ha desiderato nella lontana Cina e che aveva messo nel conto una volta che fosse andato missionario laggiù, com’era il suo grande desiderio, lo ha incontrato qui nella bella valle di Felina, sul nuovo Calvario del monte Fòsola.
Felina, terra di tanti orrori, di tanti morti, di rappresaglie, deportazioni, massacri: i partigiani di Gatta, i civili di Roncroffio, le vittime sui fronti russi, albanesi, africani, le vittime dei bombardamenti: quanto sangue innocente.
Il 19 aprile 1945 l’olocausto del sacerdote, patriota, partigiano, collaboratore delle Fiamme Verdi di don Carlo, già curato a Montecchio dal 1940 al 1941, amico di William Manfredi caduto sul Monte della Castagna (Toano) nella «Pasqua di sangue» del primo di aprile 1945. Quanta somiglianza alla passione di Cristo nel suo martirio.
Sappiamo che quando si radunò il “sinedrio” per la sua condanna, si alzarono le voci in sua difesa: «Facciamo un giusto processo e solo se è colpevole lo si condannerà». Qualcuno, anzi, cercò di deviarlo dalla via della croce. Come agnello mansueto andò incontro al macello. Quando due sgherri si presentarono alla canonica per prelevarlo, don Giuseppe non era in casa. Al suo rientro, come le donne lo avvisarono della ricerca, prese la bicicletta e andò incontro ai carnefici e si associò, tranquillo, alla loro richiesta di andare al comando partigiano per alcuni chiarimenti. Ma, appena si accorse che la via non era quella del comando, ma del bosco e della morte, tentò la fuga. Svelto com’era, trovò rifugio nel nascondiglio di una famiglia amica, evitando persino le raffiche dei mitra degli assassini, udite dalla madre che, mossa da una sensibilità tipicamente materna, andava verso Felina con dei tristi presagi sulla sorte del figlio.
Tradito e scovato nel nascondiglio, i due partigiani che lo avevano prelevato (Astro e Briano) gli furono addosso come lupi, insieme a gente ubriacata da fanatismo. L’ora delle tenebre ebbe inizio: pugni, calci, schiaffi, sputi e l’infame calunnia di spia fascista, lui, mite sacerdote di pace, antifascista e collaboratore attivo dei partigiani tutti, fu costretto a salire per chilometri il monte della Fòsola, picchiato fino a rompergli l’arcata sopraciliare destra e quindi, giunti nei pressi della Costa di Musiara, freddato con una raffica di mitra.
Dietro le quinte si nascondevano i mandanti, forti della sola arma dei vili, la calunnia, con la quale cercarono di addossare a don Iemmi una colpa non sua; e dietro la calunnia trovarono facile nascondersi fino alla provvidenziale amnistia di Togliatti. Ma sopra di loro, sopra gli esecutori del delitto e sullo stesso monte della Fòsola era sceso il perdono del sangue innocente del martire don Iemmi.
C’è, infatti, una circostanza storica che non può non indurre alla riflessione: nei paesi e nei borghi posti sulle pendici o alle falde della Fòsola, negli anni immediatamente successivi al martirio di don Iemmi, c’è stata una vera e insolita fioritura di vocazioni sacerdotali e missionarie: don Meo Raffaele Ferrari di Felina, don Raimondo Zanelli di Palareto (che scrive), don Maurizio Lusenti di Monchio, padre Zini del Fontanino, padre Biagini di Savognatica, padre Scalabrini di Colliolla, padre Tarcisio Roffi di Vellucciana, padre Sassatelli di Colombaia, don Gianni Manfredini di Santa Caterina. Si avvera il detto di Tertulliano: il sangue dei martiri è seme di cristiani. Perché, allora, tanto silenzio sulla figura così nobile di questo giovanissimo sacerdote immolato per la giustizia, per la libertà, per la legge dell’amore?
Don Raimondo Zanelli
NOTA: Gli eventi svoltisi a Monchio, in quella dolorosa tappa della Via Crucis che vede don Iemmi sputacchiato, esprimono chiaramente la colpa che si voleva addossare a don Iemmi, ma che tutti ben sapevano, come afferma don Raimondo, che non era sua. Quella colpa, infatti, ha ben altro responsabile. Il 20 gennaio 1945 il comando partigiano della Gatta (distaccamenti "Pigoni" e "G. Giovani" della 26a Brigata Garibaldi) «consente e ordina» che il vero colpevole, ben identificato, «dove viene trovato venga ucciso», in quanto ritenuto responsabile «da tutti i garibaldini della zona di Felina». Non verrà ucciso. Ed è strano che tre mesi dopo quella colpa venga addossata all'innocente don Iemmi per giustificarne l'ingiustificabile uccisione.
È bene ricordare la figura di don Iemmi e di Giorgio Morelli. Purtoppo, ed in alcuni casi proprio in provincia di Reggio Emilia, ci si dimentica di questi due martiri.
MA
Mio padre, il dott. Antonio Herman, era amico di don Giuseppe Iemmi.
Fece la promessa che avrebbe chiamato il suo primo figlio maschio Giuseppe.
Il mio nome è Giuseppe.
Giuseppe Herman