SocialMonti
Questa rubrica vuole essere un luogo di spunti per stimolare una riflessione corale e collettiva su temi di attualità. L’idea è quella di partire dal nostro territorio verso cerchi più ampi, o vice versa ascoltare gli echi lontani e portarceli vicini.
(Ameya Canovi *)
Basta fare un giro sui social per percepire un malcontento dilagante: chi impreca per la politica o per certe conduttrici TV, chi deride o sminuisce, massacra qualcosa o qualcuno, per la sua religione, per la sua etnia, per il gruppo di appartenenza. L'importante è sottolineare, nell'altro, ciò che viene percepito inferiore, osceno, immondo, mentre chi scrive si pone in una posizione di superiorità. Gli odiatori, meglio noti col termine inglese haters, sono la versione cibernetica degli sbruffoni di quartiere, una versione 2.0 dei prepotenti, un aggiornamento dei bravi di manzoniana memoria.
Se ci pensiamo, invidiosi e arroganti sono sempre esistiti, calunnia e perfidia fanno parte della tavolozza di colori emotivi del genere umano, così come rabbia, furore, frustrazione. Ma, mentre un tempo le bande di teppistelli se la prendevano apertamente con il forestiero, il più povero, il più bruttino, lo storpio, il disabile della zona o del paese, restando in una realtà relativamente circoscritta, ora la rete garantisce due nuove opzioni: la viralità del messaggio che permette di raggiungere esponenzialmente ogni persona dotata di connessione internet, e la possibilità di restare anonimi, protetti da pseudonimi e false identità telematiche.
A cosa si deve tanta negatività che può portare alla vera e propria persecuzione, a fomentare orde che sputano violenza verbale, offese e ridicolizzazioni verso chi è percepito da meno, diverso, più debole, difettoso? A sentire i famosi leoni da tastiera, essi si sentono portatori di una verità suprema, di un senso di grandiosità che li autorizza, secondo loro, al sopruso e al vilipendio. Si parte prendendo in giro in maniera pesante qualcuno in una chat, su un sito, usando sarcasmo e sfottò, per arrivare a vere e proprie forme di crudeltà (i fatti di Manduria e della baby gang che si è accanita contro il pensionato Antonio Stanio, bullizzato, perseguitato e torturato fino alla morte, sono cronaca recente).
Da un punto di vista psicologico chi urla al mondo per schiacciare gli altri in cuor suo si sente una nullità, ma non lo dà a vedere, non se lo può permettere. Il famoso bullo, altro non è che una bolla di sapone, inconsistente, mille volte più fragile del fragile contro cui si accanisce. Per paura di essere inferiore si atteggia a superiore, fino a portare la propria percepita pochezza a estremi. In questa urgenza di nascondere se stesso e la propria paura di non esistere sceglie un bersaglio e lo espone al pubblico ludibrio, lo deride, lo schernisce, raccogliendo con l' effetto palla di neve altri suoi simili, fino a creare una valanga mediatica di frustrati simili a sé, persone infelici e malcontente, che si illudono di esistere attraverso processi negativi di massa. Esponendo il più debole alla pubblica gogna, l'hater si illude di avere una forza che in realtà non ha. I sentimenti che lo animano sono pulsioni molto primitive, come l'invidia atroce, il terrore di non valere nulla. Chi agisce in questo modo non ha un mondo interiore con cui è in contatto, proietta e vomita all'esterno la propria infelicità che percepisce come un malessere costante di cui non sa prendersi cura, e che non sa dove riversare. E lo fa vilmente in rete, nascosto dal piccolo schermo.
Cosa scatena questa viltà? Il problema è molto complesso. Assistiamo a un impoverimento dell'essere in funzione delle apparenze, le generazioni si sono via via sempre più indebolite e non riescono più a contenere e arginare quelle nuove. Consapevolezza e ascolto vero del proprio Sé risultano inesistenti. Si è spinti a coltivare soltanto un'esteriorità, la pressione sociale incita a mantenere un'immagine ma non supporta una riflessione. L'introspezione viene trascurata a favore di un involucro che deve mostrarsi e fingersi perfetto, mentre il mondo interiore, lasciato nel caos, trascurato e sempre più negato, non lo è affatto.
Ci si finge spavaldi e potenti, e sotto il bullo, niente.
*Ameya Gabriella Canovi è PhD, docente e psicologa, si occupa di relazioni e dipendenze affettive. Da poco ha terminato un dottorato di ricerca in ambito della psicologia dell’educazione studiando le emozioni in classe. Ha un sito e una pagina Facebook “Di troppo amore”.