Era piccolina, in casa si parlava della Befana che quella notte doveva arrivare, lei si strofinava vicino alla nonna e ascoltava guardando la fiamma del grande camino che si trovava al centro della stanza: “Da dove arriva questa Befana?”
“Da molto lontano, porta in spalla un sacco pieno di regali per i bimbi buoni, viene giù dal camino, su andiamo a letto così arriva”.
“Se viene giù dal camino si brucia, io a letto non ci vado, voglio vedere come fa”.
Testarda già da piccola, poi a lei frottole non ne puoi raccontare, era molto furba già da allora, non le sfuggivano i lievi ammiccamenti dei grandi, non credeva un gran che a questa storia, perciò si era seduta davanti al camino e non ci fu verso di farla andare a letto.
A un tratto si sentiva camminare sul tetto, poi da sotto la cappa del camino si vedevano spuntare due piedi neri poi piano, piano le gambe con le calze nere che si muovevano, gettava un grido e correva dalla nonna, questa si avvicinava al camino e cercava di tirare giù quei piedi neri e la bimba che urlava:
“No, no, andiamo via, andiamo a letto!”
Tutta la notte stava avvinghiata alla nonna, che paura, allora era vero che la Befana veniva giù dal camino!
Intanto papà Virgilio scendeva dal tetto, portandosi dietro le calze nere della nonna piene di paglia legate a una fune, finalmente poteva preparare i regali per la sua bambina.
Così la piccola Imelde cresceva in quel paesino di montagna dove tutte le persone si conoscevano, dove su ogni porta c’era la famosa “marletta”, bastava schiacciarla in giù e la porta si apriva, bastava dire “permèss” e avevi ingresso libero in tutte le case di Minozzo. C’erano tanti bambini che giocavano sul sagrato della Chiesa e dentro la Rocca in disuso da parecchi anni, però avevi anche dei doveri come pascolare e mungere le pecore. Poi queste vennero vendute, l’Imelde stava crescendo e non voleva più fare quel lavoro lì.
Papà Virgilio però, era molto severo, perciò quando Imelde non voleva più le pecore, lui aveva comprato trenta maialini da latte in società con un cugino e i loro due figli cioè l’Imelde e Silvestro, dovettero accudirli per un anno intero e lei ricorda ancora il puzzo di “stambi” che le si era impregnato nella pelle, allora il bagno si faceva ancora nella tinozza, ma non tutti i giorni, secondo suo padre doveva imparare che nella vita nulla ti viene regalato, ma te lo devi guadagnare e ancora adesso lo ringrazia per questi insegnamenti.
Intanto dopo dodici anni all’Imelde era arrivato un fratellino, “Enzo”, non era una cosa molto entusiasmante per lei, tutti guardavano lui che fra l’altro era molto delicato di salute, poi a lei adesso era arrivata anche l’incombenza di lavare le pezze del neonato nella pozza dietro casa. Meno male che c’era la santa nonna che di nascosto le prendeva la vaschetta e diceva “làsa far a me”.
Santa nonna Minghetta, quanto l’ha amata e ricordata nei suoi racconti, anch’io l’ho conosciuta, alta, magra, col fazzolettone nero legato dietro la nuca, l’abito lungo fino ai piedi trattenuto in vita da un grembiule anch’esso molto lungo e per ripararsi dal freddo invernale uno scialle di lana sempre nero appoggiato doppio sulle spalle e la corona del rosario fra le dita, sempre indaffarata anche in età avanzata.
Papà Virgilio poi si addossava tutti i lavori dei campi e in inverno quando la campagna riposava, prendeva la bicicletta da arrotino e partiva per la toscana, tornando in primavera. A Minozzo erano in parecchi a fare quel mestiere, lui nato in una famiglia numerosa, erano in otto fratelli, aveva cominciato da piccolo a seguire uno zio. Allora usavano ancora “al calandrun” una specie di cariolone da lavoro con le ruote, con sopra la mola che si muoveva schiacciando un pedale e che dovevano spingere a mano come una grossa carriola. Qualcuno di voi senz’altro si ricorderà di “Moratti” l’arrotino di Garfagno coi capelli lunghi e ricci con riflessi gialli, sempre scompigliati e due occhi grandi e verdi adombrati da ciglia foltissime, barba incolta e vestiti sempre bisunti, che quando aveva buttato giù qualche bicchierotto in più, prendeva il suo calandrone e faceva la corsa per la statale con le macchine, zigzagando su per le salite per non farsi superare. Poi un giorno che si trovava in quel di Parma una di queste macchine non ha fatto in tempo a frenare e fu investito perdendo la vita. Ebbene questo personaggio un po’ strambo, per un po’ ci è mancato.
Torniamo al piccolo Virgilio e lo zio, che dovevano percorre a piedi tutta la strada per arrivare fino a Pisa e Livorno. Gli arrotini partivano in gruppo, poi si dividevano durante il tragitto, certi andavano verso il Parmense, altri andavano verso il Modenese e Bologna, di solito quelli di Triglia e Minozzo in Toscana. Su spingendo il carretto con la mola da lavoro verso Sologno, poi Ligonchio, Pratorena poi giù verso la Garfagnana e la Lunigiana, facendo fermate durante la lunga camminata, ma sempre lavorando. Lui bambino con ai piedi i famosi “ciupé”, scarponi con la suola di legno, in testa un cappellaccio a falde larghe che doveva anche ripararlo dalla pioggia, una giacchetta striminzita e i pantaloni che gli arrivavano a malapena alle caviglie. Lo zio lo mandava sotto le finestre delle case a urlare “L’è arivaà al muletàààà!!...” Poi raccoglieva i vari coltelli o forbici che gli consegnavano e una volta finito il lavoro li riportava ai proprietari.
Dormivano in posti di fortuna, stalle fienili in cambio del filo rifatto a due coltelli e qualche volta i contadini gli allungavano una scodella di minestra calda. Quando raccontava questo si ricordava che durante uno di questi viaggi aveva contratto “al felsi” cioè il morbillo e oltre ad avere il corpo punteggiato da brufolini rossi, una notte gli era venuta una febbre altissima e lui che tremava dal freddo in mezzo al fieno e lo zio che gli diceva “Pin sta àtaca àla mi schéna achsè te ta scald un pö”. Bambino vieni vicino alla mia schiena che ti scaldi un poco, così con quella stufetta dietro la schiena si scaldava anche lui, come potete capire, questa era la selezione naturale della specie, chi superava certe difficoltà riguardanti la salute, poi diventava indistruttibile.
Intanto piano piano apprendeva il mestiere dallo zio, poi una volta diventato adulto si comprava una bicicletta completa di tutta l’attrezzatura per arrotare, “la bici mȇola” così quando arrivava la brutta stagione lui continuava a partire per la Toscana e tornava a primavera, come del resto facevano anche i pastori con le pecore la famosa “transumanza”.
La bicicletta poi è stata ripristinata da Enzo, il figlio che con pazienza l’ha rimessa a nuovo facendone un pezzo da museo, come potete ammirare nella bella fotografia.
Avendo avuto un’infanzia tribolata, Virgilio per i suoi figli voleva il meglio, volevano che l’Imelde continuasse a studiare, ma lei si rifiutò categoricamente, allora mamma Maria decise di farle imparare un mestiere coi dovuti crismi doveva imparare a cucire, prima da una sartina di Minozzo poi a Villa da una brava sarta, era molto piccola, ma questo tirocinio le piaceva.
Dodici anni, non era più una bambina, ma neanche una signorina, era ancora l’età dei giochi e degli amici, quando ancora cuciva a Minozzo ogni volta che la sua insegnante si assentava per pochi minuti, l’Imelde correva sul solaio e ginocchioni davanti al finestrino, guardava i suoi compagni che si divertivano facendo il bagno nella “gora”, perciò anche quando rincasava, aveva voglia di uscire.
Dovete sapere però, che fino a una cinquantina di anni fa l’educazione che dovevano avere le bambine era molto severa, non importava se eri stata tutto il giorno ingobbita a fare sopramani o sottopunti, quando arrivavi a casa dovevi aiutare a preparare la cena, pelare patate, lavare l’insalata e via di seguito. Lei non avendo scuse valide per uscire, allora vuotava i secchi pieni d’acqua nel lavandino così poteva correre alla fonte a riempirli di nuovo era un modo come un altro per farsi vedere e incontrare qualcuno e chiacchierare un po’, quando racconta questo ride ancora divertita per queste sue birichinate. Poi più tardi lasciava Minozzo la mandarono a Genova presso una zia, tanto che potesse specializzarsi in cucito, presso un’apprezzata sartoria della città che si trovava in piazza De Ferraris. Quando dopo qualche tempo faceva ritorno a Minozzo era diventata così brava che si metteva a fare la sarta in proprio.
Il mio abito da sposa l’ha cucito lei, questa era la moda degli ultimi anni cinquanta, quando abbiamo cominciato ad accorciare le gonne e le fotografie erano ancora in bianco e nero.
(Elda Zannini)
Racconti che, come questo, sanno trasmettere sensazioni ed emozioni anche a chi, come me, li ha solo sentiti e non vissuti. Saluti
Andrea Stefani
Grazie alla signora Zannini per trasmetterci la testimonianza di un mondo che appare così lontano e durissimo ma anche affascinante e pieno di valori.
Luca L.
Ringrazio di cuore tutti i miei lettori e tutti quelli che fanno commenti come questi, loro mi danno il coraggio di continuare con queste mie vecchie storie.
Abbraccio tutti
Elda Zannini
Continui pure signora Elda, aspettiamo sempre i suoi piacevoli racconti.
Paola Bizzarri