Volge sempre più al declino la tradizione dell’allevamento suinicolo in Appennino. Finisce all’asta la Carpinetana noto complesso per l’allevamento suinicolo a Campovecchio di Carpineti, a seguito del fallimento, nel 2014, dell’ultimo proprietario.
La Carpinetana salì agli onori della cronaca una delle ultime volte nel 2011 per un incendio che causò la morte (prematura) di 233 suini della Tbi (Topics Breeding Italian), l’azienda bresciana ultima proprietaria, ma la sua storia è molto più antica. Era nata nel 1962 per volontà di Gibertoni e Giovanardi titolari della Giza, storico costruttore di attrezzature zootecniche. La Carpinetana ha avuto una epopea che ha attraversato tutti gli anni 60, 70 e 80, iniziando un declino inarrestato negli anni 90.
All'inizio vi lavoravano stabilmente 10-11 operai coordinati dallo storico "capouomo" Dino Galeotti, per poi scendere di qualche unità con l'avvento del trasporto dei mangimi in modo sfuso anziché in sacchi. Trasportatore di mangimi in sacchi e suinetti di riferimento fin dall'inizio dell'attività della Carpinetana fu Alberto Borghi con quello che, molti, ricordano essere “il suo mitico autocarro a tre assi Alfa Mille”, ultimo camion della serie con il biscione a circolare per le strade reggiane.
L'allevamento produceva suinetti svezzati che venivano venduti al peso di 25-30 kg agli allevatori per l'ingrasso. Erano ben 700/750 le scrofe che, fecondate allora in modo naturale da 25 verri, producevano 16000/16500 suinetti all'anno. Allevamenti con lo stesso target produttivo nello stesso periodo erano dislocati uno a Felina Amata, la San Marco, e uno alle Bocedre di Castelnovo.
Erano periodi in cui i suini erano molto richiesti, l'attenzione all'ambiente era più scarsa e la tolleranza delle persone verso gli allevamenti era maggiore. Successivamente agli anni 80 la Carpinetana fece alcuni passaggi di proprietà, durante i quali subì una riqualificazione edilizia, venne costruito un depuratore di maggior capacità e fu introdotto una nuova genetica, arrivando all’ultima proprietà che la chiuse, prima di fallire.
Ci fu un tentativo da parte della società mangimistica Martini nel 2013 di ripopolarla di suinetti con un contratto in soccida, ma problematiche soprattutto ambientali fecero desistere la società romagnola dall'iniziativa. Con la vendita all'asta della Carpinetana finisce dopo più di 50 anni l'allevamento suinicolo di Campovecchio. Rimane però nel ricordo di tante persone carpinetane il momento del boom economico italiano a cui la Carpinetana ha contribuito e la festa della porchetta di Carpineti con le sfilate delle nostre majorette che all'epoca patrocinata dallo storico allevamento.
Tiziano Borghi, sindaco di Carpineti afferma “sono dispiaciuto per la triste conclusione della Carpinetana, comunque l'allevamento incastonato nel bellissimo Borgo storico di Campovecchio non avrebbe potuto continuare la sua attività, considerate le condizioni ambientali in cui si trova. Auspico che il futuro acquirente della porcilaia possa bonificare e riqualificare tutta l’area, per renderla fruibile ad attività meno impattanti e più salubri”.
La Carpinetana è una piena proprietà che consta di undici corpi di fabbrica adibiti ad allevamento suini e spazi depositi, ufficio e spogliatoi, oltre a piccolo fabbricato ad uso pesa e depuratore, oggi inaccessibile. All’interno vi è anche una cabina di trasformazione Enel. L'immobile è venduto dal Tribunale di Reggio Emilia, sarà consegnato libero a cura del Custode Giudiziario e, per poterlo avere, si potranno fare rilanci sul sito dell’Istituto di vendite giudiziarie (la vendita inzierà il 4 giugno 2019) alle 16.45. Sarà anche possibile, sullo stesso sito, prenotare una visita al complesso.
Per i meno giovani queste righe rinfrescano la memoria di una montagna ancora piena di vita e di attività, zootecniche e non, tanto da rendere allora impensabile che si sarebbe dovuto poi affrontare i problemi economici, sociali, ecc…., dei giorni nostri, e dei quali ci troviamo a discutere non di rado anche su queste pagine.
Sarebbe interessante poter disporre dei dati di quell’epoca e di quelli di adesso, riguardo ad esempio agli allevamenti e caseifici, per poter fare un confronto tra i tempi nostri e quegli anni passati, e sarebbe anche un modo per far conoscere il “come eravamo” ai più giovani, o perlomeno a quanti di loro ne fossero interessati.
P.B. 30.04.2019
Sempre per i meno giovani, ma quelli che abitano a Campovecchio, queste righe rinfrescano la memoria di una montagna un po’ meno idilliaca di quella descritta da P.B.
Andrea
Andrea mi mette in bocca la parola “idilliaca” che in questa occasione non ho usato, ma poco importa perché la sostanza è che anche in altri posti della nostra montagna, all’interno delle borgate, c’era semmai da ridire tra vicini per gli “effluvi” di una stalla, ma il sistema tirava avanti in modo vitale – questo è il concetto da me utilizzato – anche ricorrendo se del caso a qualche rimedio o compromesso.
Mi sembra del resto che ciò stia ancora avvenendo in altri posti, dentro e fuori i confini nazionali, dove ci capita di vedere ancora la presenza di stalle all’interno degli abitati, e dove mi sembra che tale convivenza non venga messa in discussione, mentre noi abbiamo dismesso un sistema che poteva necessitare di correzioni, ma che funzionava, senza aver trovato soluzioni alternative (non mi pare il miglior risultato).
P.B. 04.05.2019
Sottoscrivo in pieno per quanto riguarda le stalle con pochi animali, da ragazzo ne avevo una di fronte a casa, e l’odore non mi ha mai dato fastidio anzi quasi mi piaceva. Ma inviterei P.B. a fare una chiacchierata con gli abitanti di Campovecchio, per capire quanto diverso sia un allevamento intensivo con migliaia di suini concentrati in uno stesso luogo. Soprattutto quando, come avveniva in quegli anni, gli allevatori spesso non avevano un minimo di coscienza ecologica. Odore di letame suino insopportabile 24 ore al giorno, suini morti e confezioni di medicinali buttati nei boschi, non credo siano un buon esempio di un sistema che tira avanti in un modo vitale.
Andrea
Vorrei ricordare a P.B. che il termine “EFFLUVIO” esprime il diffondersi di una sensazione olfattiva gradevole, cosa ben diversa e antitetica ai “miasmi”, che devono sopportare coloro che vivono a ridosso di certe aziende agricole. Un tempo limitati solamente al periodo tardoestivo (prima dell’aratura), ma oggi estesi da un solstizio all’altro.
fg
Il termine “effluvio” mi sembra abbastanza neutro, nel senso di poter essere inteso nei due modi, significare cioè un odore gradevole o anche l’opposto, a seconda della “sensibilità” di ciascuno di noi, e per quanto mi riguarda non mi dispiacevano affatto le emanazioni tardo-estive provenienti dal letame sparso sui campi prima dell’aratura (per stare alle parole di fg).
Quanto ad Andrea, non si possono di certo approvare le conduzioni “disinvolte” degli allevamenti, ma non andrebbe dimenticato che quelli intensivi sono nati quando si puntava ad avere, nella nostra alimentazione, maggiore disponibilità di proteine animali, a costo più contenuto possibile (né possiamo ignorare che il Belpaese era uscito abbastanza “affamato” dal periodo bellico, e si è portato per un po’ dietro questo “ricordo”).
Poi sono cambiate le nostre abitudini alimentari, e non solo, ma non si può pensare che un modello di sviluppo possa trasformarsi altrettanto velocemente, e si aggiunga che anche la vita delle stalle piccole, o più piccole, si è fatta da noi piuttosto difficile, ed è stata di fatto “sacrificata” agli insediamenti abitativi, tanto che da quanto mi risulta gli strumenti urbanistici si sono generalmente uniformati a questo nuovo modo di vedere le cose.
P.B. 08.05.2019